Nei 550 anni dalla morte di Guillaume Dufay (1397-1474)
in copertina: Guillaume Dufay e Gilles Binchois in una miniatura dal Champion des dames di Martin Le Franc, Cambrai, circa 1451 (Gallica Digital Library)
Guillaume Dufay, i tredici mottetti isoritmici: un simbolico addio alla musica medievale. Con il suo stile moderno, precursore dell’armonia tonale e dell’arte impegnata, segnò indelebilmente lo sviluppo della polifonia rinascimentale fino all’avvento del periodo barocco.
Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile ed alta più che creatura, termine fisso d’eterno consiglio, tu sei colei che l’umana natura nobilitasti, sì che il suo fattore, non disdegnò di farsi sua fattura.
Queste parole dell’angelo rivolte alla Madonna si affacciano nella mente di Guillaume ancora cariche di tensione e mistero, mentre egli inginocchiato ammira l’affresco nel tempietto della Basilica della Santissima Annunziata.
Quel giorno che era ancora aurora era andato a salutarla, la Vergine Maria: un omaggio a colei che lo aveva tanto ispirato. Era il 25 marzo 1436, quarto giorno di primavera e del Capodanno fiorentino, e l’ammirato compositore franco-borgognone era atteso da Papa Eugenio IV e da Piero, figlio di Cosimo de’ Medici, per la consacrazione della Cattedrale di Santa Maria del Fiore, con la nuova ed immensa cupola del Brunelleschi. Il mottetto Nuper rosarum flores, commissionatogli dal Papa, cominciò a diffondersi vibrante tra le candide mura di pietra della cattedrale.
Il duomo di Santa Maria del Fiore nel 1450 circa (Codice Rustici, Biblioteca del Seminario Arcivescovile Maggiore di Firenze)
La basilica tutta intera risuonava di sinfonie così armoniose che si sarebbe detto che il suono e il canto del paradiso fossero scesi dal cielo sulla terra: fu questo il resoconto della consacrazione, scritto da Giannozzo Manetti, oggi conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana di Roma.
Nella ricorrenza dei 550 anni dalla morte di Guillaume Dufay, questo è un modesto contributo sul grande fiammingo, attraverso uno spaccato della sua vita artistica che si apre idealmente proprio a Florenza, la ‘città dei fiori’ dove visse e che tanto amò. Un contributo che in parte mira a rinnovare l’attenzione sulla straordinaria ed innovativa produzione musicale del compositore che si pone al centro di quella rivoluzione che ha caratterizzato il panorama musicale a cavallo tra il XIV e XV secolo.
Hans Memling, Cristo con angeli musicanti, circa 1480 (Koninklijk Museum voor Schone Kunsten Antwerpen)
Oltre il Medioevo: la polifonia dell’avvenire
La serie di mottetti isoritmici di Dufay non costituisce un ciclo unitario a sé stante, ma ciascuna delle tredici opere è una pièce de circonstance, talvolta scritta a intervalli di diversi anni tra loro. Fondamentale è il fatto che Dufay ci lasci un’eredità dove già si possono intravedere i germi della cultura moderna: la sua opera non si colloca quindi al tramonto del Medioevo, come qualche musicologo ebbe modo di asserire, bensì agli albori del primo Rinascimento, di cui fu protagonista indiscusso.
I suoi mottetti rappresentano così un simbolico addio alla musica medioevale, e segnano il confine tra due modalità di fare musica, in cui la figura di Dufay viene ad incarnare quella transizione che ha portato ad aprire la strada verso lo sviluppo della polifonia rinascimentale, fino all’avvento del periodo barocco.
La formazione in Borgogna
Ma andiamo con ordine: Dufay si formò come compositore nella scuola di Cambrai, città dove visse a più riprese e morì il 27 novembre 1474. La cattedrale di Cambrai all’epoca era un centro musicale di prim’ordine ed in piena fioritura, uno dei poli culturalmente più evoluti dei Paesi Bassi. Molti compositori della Scuola di Borgogna – fra cui Johannes Tinctoris e Johannes Ockeghem – qui si formarono, o vi tornarono per insegnare.
La formazione di Dufay nell’ambito della Scuola Borgognona fu inoltre agevolata dall’itinerante corte ducale, la cui residenza variava in un’area compresa tra l’attuale Belgio e la parte nord-orientale della Francia; un territorio fertile per le arti in generale, in quanto i Duchi di Borgogna furono sempre solleciti mecenati di pittori e musicisti. Il mecenatismo musicale di Filippo il Buono, soprannome di Filippo III di Borgogna (1396-1467), fu talmente influente ed esteso che il termine ‘borgognone’ venne assegnato proprio allo stile musicale e ai compositori che fiorirono durante il suo regno. Il teorico fiammingo Tinctoris scrive che l’onore e le ricchezze offerte in ricompensa agli artisti stimolavano e incrementavano a tal punto il talento, che la musica sembrava «una nuova arte, la cui fonte erano compositori come Dufay e Binchois».
Il tenor isoritmico del Kyrie della Messa di Guillaume de Machaut (circa 1360). Il modulo ritmico (talea) si ripete, anche se con note ogni volta diverse, sette volte
Una vita in viaggio… verso Rimini
I viaggi che Dufay intraprese lungo l’Europa rappresentano il tratto fondamentale della sua esperienza formativa. Tra questi, il Concilio di Costanza (1414-1418) fu per lui un’occasione straordinaria di relazioni fra un numero enorme di musicisti di culture diverse, non solo europee ma anche orientali; un fatto, questo, che spiega gli sviluppi successivi della sua carriera. È proprio presso il Concilio che emerge uno dei tratti più significativi della vita di Dufay: in quello che fu, secondo il cronista Ulrich von Richental, il più grande congresso ecumenico del Medioevo, avviene il suo incontro con Carlo I Malatesta, signore di Rimini, e Pandolfo Malatesta arcidiacono di Bologna, presenti anch’essi all’evento, e due figure chiave tese a raggiungere il secondo obiettivo del Concilio – riunificare la Chiesa d’Oriente con quella d’Occidente.
Il giovane Dufay arriva così in terra malatestiana. La sua presenza qui è testimoniata da tre importanti opere: in ordine cronologico
– Vasilissa, ergo gaude, un mottetto isoritmico che dedicò alla bellissima Cleofe Malatesta, sorella di Pandolfo, in occasione delle sue nozze con Theodoro II Paleologo;
– Resvellies vous et faites chiere lye, una ballata dedicata a Carlo Malatesta, anch’esso per le sue nozze;
– Apostolo Glorioso, un altro mottetto isoritmico che Dufay dedicò a Pandolfo Malatesta arcivescovo di Patrasso.
Lo stile
L’orientamento compositivo di Dufay è, di fatto, frutto di una combinazione di diversi stili che in quegli anni si svilupparono in Europa. Dufay apprende e sintetizza il senso della forma tipicamente francese, la sensualità armonica del modello inglese di Dunstable, e il caldo lirismo italiano che egli aveva scoperto alla corte dei Malatesta. Questa fusione diede vita ad un linguaggio singolare, unico, che arrivò ad influenzare tutta la futura polifonia e che raggiunse il suo massimo sviluppo negli anni ‘40 del Quattrocento.
Stilisticamente Dufay si distingueva per una struttura contrappuntistica chiara, trasparente, con cadenze ben definite, come la successione dominante-tonica scritta a tre parti, strettamente legata alla struttura retorica del testo che ha spinto diversi studiosi, a partire da Besseler, nel 1950, a considerare la sua musica come un passo fondamentale verso l’emergere dell’armonia tonale, che continuerà le fasi del suo sviluppo nel secolo seguente. Un altro aspetto interessante della scrittura di Dufay è l’uso ‘discorsivo’ dell’alterazione cromatica, come recentemente reso evidente dai musicologi statunitensi Graeme Boone e Thomas Brothers.
A testimonianza del suo ruolo avanguardista nella scena musicale del tempo, Dufay fu uno degli ultimi compositori a fare uso di tecniche strutturali polifoniche del tardo Medioevo (come il citato isoritmo). I suoi tredici mottetti, tutti appartenenti alla prima metà della sua carriera, e perlopiù composti per fini squisitamente religiosi, sono opere che denotano uno stile moderno, quasi precursore dell’arte impegnata, in confronto all’anonima severità liturgica di altra polifonia quattro-cinquecentesca.
Nuper rosarum flores e i mottetti isoritmici
Fra i tredici mottetti isoritmici del compositore Nuper rosarum flores, destinato alla celebrazione sonora solenne di grandi avvenimenti pubblici, è quello più famoso e tra i più ammirati del ‘4001. Impostato a quattro voci (tenor, contratenor, motetus e triplum), la sua ossatura formale è costituita da un cantus firmus che i due tenores eseguono a note lunghe, ritmicamente sfalsati a distanza di un intervallo di quinta, sul motivo Terribilis est locus iste (‘Questo luogo incute rispetto’).
Ma in cosa consiste la tecnica dell’isoritmia?
L’isoritmia in musica è una tecnica compositiva che permette di creare corrispondenze fra differenti parti d’una composizione; utilizzata da molti compositori fra Tre e Quattrocento, gli studiosi moderni la descrivono come l’impiego ripetuto di un’idea musicale – un ‘frammento’ melodico di base – in una o più parti dell’ordito polifonico, dalla stessa voce o dalle altre, sia riproponendone solo la struttura ritmica (che prende il nome di talea) pur variandone la melodia, che riproponendone la sequenza di altezze (color).
1. Il mottetto divenne ulteriormente celebre, assurgendo a icona della storia della musica occidentale, nel 1973, quando fu oggetto di un provocatorio saggio di Charles Warren, che ne interpretò la struttura musicale (numero di tactus, macro-sezioni, alternanze delle voci, ripetizioni) come un riflesso esatto delle misure architettoniche della Cattedrale di Firenze; questa tesi, ardita e suggestiva, venne successivamente smontata ‘pezzo per pezzo’ e misurando la basilica ‘metro alla mano’ da un altro musicologo americano, Craig Wright [ndr]. Cfr. Charles W. Warren, Brunelleschi’s Dome and Dufay’s Motet, «The Musical Quarterly», a. 59 n. 1 (Jan., 1973), pp. 92-105 e Craig Wright, Dufay’s “Nuper rosarum flores”, King Solomon’s Temple, and the Veneration of the Virgin, «Journal of the American Musicological Society», a. 47 n. 3 (Autumn, 1994), pp. 395-441.
Una messa per Bologna: la Missa Sancti Jacobi – di Alessio Romeo
Risalente a un periodo compreso tra il 1426 e il 1428, la Missa Sancti Jacobi (‘Messa di San Giacomo’) è in ordine di tempo il secondo contributo di Dufay al genere più illustre della musica liturgica. Si è a lungo ritenuto che fosse stata composta a Parigi, o comunque al di là delle Alpi; tuttavia gli studi di Planchart e i successivi sviluppi delle ricerche hanno reso molti musicologi concordi nel collegare la messa alla basilica di San Giacomo Maggiore di Bologna. Tra le prove che avvalorerebbero tale ipotesi, la più importante è stata la riscoperta, nel 2002, dell’Antifonario di San Giacomo Maggiore, con cui è stato possibile dimostrare che il cantus firmus impiegato da Dufay nell’Introito, Rite maiorem, deriva dal repertorio dell’Ufficio del giorno di San Giacomo lì impiegato, repertorio, allo stato attuale delle conoscenze, appartenente in modo esclusivo alla tradizione di quel luogo di culto. D’altra parte è documentato che Dufay si trovava all’epoca proprio a Bologna al seguito del vescovo Louis Aleman, in quegli anni legato papale nella città felsinea. Tramandata dal codice Q15 della Biblioteca della Musica di Bologna – confezionato probabilmente in area veneta –, la Missa Sancti Jacobi è una messa plenaria, ossia di una messa che, oltre ai testi dell’Ordinarium, ne intona alcuni del Proprium: in questo caso Introito, Alleluia, Offertorio e Communio. Dal punto di vista musicale, la Messa è testimone della fase di trasformazione delle tecniche compositive in atto nel secondo quarto del XV secolo. Infatti, a differenza di quanto Dufay avrebbe fatto più di venti anni dopo con la Missa Se la face ay pal, la Missa Sancti Jacobi non impiega alcun cantus firmus comune a tutti i movimenti e, in tal senso, risulta persino meno unitaria della precedente Missa Resvelliés vous, in cui frammenti dell’eponima ballade sono impiegati quale strumento unificante; tuttavia il Communio rappresenta, allo stato attuale delle ricerche, il primo esempio di fauxbourdon attestato al di fuori dell’area anglosassone, dove tale tecnica era stata elaborata. Un simile bifrontismo si riscontra anche nello stile, che in Kyrie, Gloria e Credo è più arcaico rispetto a quello più aggiornato degli altri movimenti: una mistura di passato, presente e futuro che, se pure intacca l’unità del lavoro, ne è al tempo stesso motivo primo del suo fascino.
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