In copertina: Carl Gustav Jung (anni ‘30). Psichiatra, psicoanalista, antropologo e filosofo svizzero

1. Questo articolo è un estratto della tesi di Biennio in Didattica della Musica presso il Conservatorio “N. Rota” di Monopoli, relatore M° Luca Buzzavi.

La voce di un individuo è la traccia acustica che manifesta aspetti relativamente oggettivi, età e sesso, e altri variamente interpretabili come carattere, personalità, ruoli sociali e professionali se vi è una forte identificazione con essi: la voce è dotata di potenziale comunicativo, pertanto può essere oggetto di ricerche anche delle discipline psicologiche. L’obiettivo dello studio «Psicologia ed educazione vocale: verso un approccio integrato» è fornire una visione psico-pedagogica su cui basare l’educazione vocale offrendo all’insegnante, che guida i propri allievi in questo ambito, conoscenze e competenze di tipo interdisciplinari. Tali informazioni derivano dall’aver indagato la voce in modo da restituire di essa una concezione in cui ne si completi la già nota dimensione fisiologica e culturale. Di interesse per l’elaborato è la comprensione delle difficoltà dei propri studenti attraverso l’approfondimento di aspetti psicologici intrinseci all’atto fonatorio. La trattazione è divisa in due parti: una teorica ed una in cui si analizzano aspetti più pratici. Dal principio si approfondisce la psicologia della voce attraverso un’analisi delle connessioni tra identità e voce e delle modalità in cui quest’ultima possa esprimere emozioni. A seguito si inizia ad andare a fondo riguardo la psicologia del canto, sottolineando l’espressione emotiva dello strumento vocale e la sua efficacia nel creare senso di appartenenza e benessere, migliorando la sintomatologia di malattie fisiche e disturbi psicologici. Viene introdotta quindi la sezione metodologica descrivendo le psicoterapie che intervengono sulla psicopatologia attraverso tecniche vocali. In particolare si rendono noti i lavori di Diane Austin, basati sulla teoria di Jung e delle relazioni oggettuali di Winnicott, in cui la voce viene vista come qualcosa che contiene importanti informazioni sul passato e in particolare sulla prima esperienza di relazione tra madre e bambino. Approfondita la visione della vocalità nel Neo-funzionalismo di Luciano Rispoli, vengono descritte le tecniche psicologiche utili nell’insegnamento del canto. Gli esercizi presenti in appendice sono relativi agli argomenti trattati all’interno della sezione “Cantare con la Mindfulness” e sono validi per chiunque svolga o, nel caso di studenti, si prepari a svolgere la professione di musicista cantante. Il canto ci porta nel momento presente, è un esercizio che invita costantemente a stare nel qui ed ora e come tale può davvero essere una pratica trasformativa. Cantare risveglia ad una vita più consapevole e serena, perché strettamente connessa al nostro respiro, conferendoci una maggiore apertura e connessione con le altre persone e con il mondo. Infine si descrive un modello specifico di canto-terapia: la coralità.

Partendo dall’esperienza diretta come cantante e insegnante di canto, dall’apprendimento della tecnica all’insegnamento della stessa, ho potuto osservare come la grande maggioranza degli allievi da me seguiti abbiano avuto un percorso tutt’altro che lineare. Il confronto quotidiano con impedimenti nell’espressione del canto e le difficoltà che si incontrano per apprendere e sviluppare le capacità tecniche, mi ha fatto intuire che esistono blocchi emotivi che vanno al di là della predisposizione fisica, ma anche intellettuale, chiamata “talento”, i quali impediscono il corretto uso dell’apparato fonatorio. In altri termini, pur partendo da aspetti didattici, la voce nel canto così come nel parlato, è espressione dello stato emotivo e sentimentale del soggetto e inevitabilmente l’educazione canora tocca l’unità psicosomatica/somatopsichica della persona. Lavorare con la voce costringe a lavorare con la personalità nella sua globalità e, per il soggetto che canta, si rende necessaria una mediazione tra strutture fisiologiche, attività emotive e attività cognitive a loro volta modulate dai meccanismi di difesa: l’armonia o la disarmonia dei suoni emessi ci da indicazioni sull’armonia o sulla disarmonia del funzionamento dell’insieme di quella unità psicocorporea.

 

Donald Woods Winnicott (Plymouth, 1896 – Londra, 1971), pediatra e psicoanalista britannico.

L’attività di ricerca è stata finalizzata a mettere in evidenza problematiche concrete che spesso riguardano la didattica del canto. La modalità con cui l’insegnante di canto possa trasmettere all’allievo tutte le necessarie indicazioni tecniche, interpretative e stilistiche, è uno di quegli argomenti che hanno dato vita a contrapposizioni spesso aspre. Inevitabilmente si finisce con il parlare del proprio “metodo”, e questo, in modo quasi altrettanto inevitabile, viene contrapposto ad altri “metodi”, ognuno cercando poi antenati illustri siano questi trattatisti del presente o del passato piuttosto che famosi cantanti. D’altra parte, non credo si possa negare che questo rapporto didattico è di norma molto più personale in quanto investe aspetti e motivazioni anche profondi dell’indole assenti in altri casi, e, a mio parere, di esso non si può parlare in termini asettici e generali (che finiscono con l’essere soltanto generici).

Insegnare significa comunicare verbalmente una serie di informazioni; la comunicazione presuppone l’esistenza di un linguaggio condiviso fra coloro che interagiscono. Alcuni di noi avranno incontrato problemi trovandosi occasionalmente all’estero, non sapendo parlare la lingua del luogo e non potendo in molti casi cavarsela con l’inglese; in genere in qualche modo si utilizzano i gesti, ma sembra chiaro che in questo modo si riescano a trasmettere soltanto informazioni molto semplici e di uso comune, non paragonabili ad un insegnamento complesso. In primo luogo, la mancanza di un linguaggio comune – e quindi l’impossibilità di una comunicazione/insegnamento complessi – è la principale caratteristica dell’iniziale interazione fra maestro di canto e allievo. Se non si riesce, da parte dell’insegnante, ad eliminare questo problema in tempi molto brevi, la persistenza dell’incomprensione produrrà a lungo andare danni più o meno gravi, sia in termini di salute vocale e di mancato apprendimento che – forse, soprattutto – in termini di autostima e di una corretta valutazione di sé nell’allievo. Molto spesso vengono usati termini che nel linguaggio comune non conducono ad alcun significato, come i classici “voce in maschera” o “appoggio sul fiato”, senza spiegare in modo chiaro all’allievo che cosa essi vogliano indicare. Altre volte i termini compongono una sorta di “formula magica” che in quanto tale non richiede spiegazione alcuna: si va dal pittoresco “metti la voce in punta di labbra”, al poetico “pensa a dei bambini che saltellano fra l’erba”, all’un po’ sgradevole “vomita il suono”!

Tutto ciò ritengo non risolva il problema della comunicazione né crei un linguaggio condiviso e il più possibile privo di fraintendimenti, cosa che invece può derivare da una semplice spiegazione dei fondamentali meccanismi fisiologici fonatori e respiratori, in modo che l’allievo comprenda sin da subito che la voce parlata o cantata è prodotta dall’azione concomitante e armonica di una serie di muscoli, alcuni più importanti di altri, e dei quali si possa iniziare ad apprendere l’utilizzo con facili esercizi. Questo non significa assillare l’allievo come se dovesse preparare un esame in Fisiologia dell’Apparato Vocale, ma piuttosto fargli capire come anche il canto – nei suoi fondamenti – si basa su meccanismi di causa-effetto tipici di qualunque attività umana e non su sue proprie caratteristiche avulse dalla quotidianità. Questo tipo di approccio può essere molto utile – oltre che ovviamente con allievi italiani – anche con studenti stranieri e orientali, per i quali spesso le nostre parole tendono ad assumere significati e sfumature per noi imprevedibili.

Superato in questo modo lo scoglio iniziale, si potrà quindi procedere approfondendo di volta in volta gli argomenti necessari e affrontando con lo stesso principio i problemi che nel corso dello studio si pongono, inclusa la spiegazione dei già citati “voce in maschera” e simili, in maniera che tutto diventi più chiaro e lineare.

Chiunque insegni o studi canto sa che il rapporto che si instaura tra Maestro e allievo è diverso da qualsiasi altro rapporto docente-discente, derivando dalla natura stessa di tale disciplina che, per suo peculiare intreccio di interazioni psico-fisico-emotive, “costringe” l’allievo (e l’insegnante) ad entrare in contatto con il sé più profondo, spesso con le proprie intime paure. Mettersi “a nudo” e conseguentemente mettersi “in gioco” completamente sono le condizioni indispensabili per trovare la propria vera essenza vocale e ciò è vero nel senso di ciò che rappresenta la seconda problematica: di solito chi comincia a cantare pensa di sapere già qual è il suono giusto e quindi esegue con un pre-condizionamento o pregiudizio sbagliato credendo di conoscere cosa cercare e quali siano i parametri di valutazione. Quasi sempre fa riferimento a componenti del suono assolutizzate: per esempio la rotondità e lo spazio inteso sia come spazio di risonanza che dà un senso di comodità’, sia come spazio verticale (ed ecco il motivo per cui se si fa l’imitazione del cantante operistico si userà la vocale “o” nella versione più appariscente ma squilibrata).

La vera ricerca di se stessi, in qualità di strumento, è invece capire cosa avviene nel corpo a livello di sensazioni e di movimenti, una consapevolezza di tipo orientale direi, nel senso che non si tratta di controllare attivamente o di fare il movimento che si ritiene corretto (a qualsiasi livello, sia esso respiratorio, articolatorio ecc.) ma di “lasciare avvenire” il movimento giusto che è quello naturale, prendendone coscienza e sapendolo integrare con altri aspetti della voce. Da questo punto di vista penso a volte che il canto sia un’arte femminea, perché presuppone una sensibilità e duttilità che spesso manca alla mente maschile tendente più al controllo volontario, al dominio. Con un tale approccio è facile sfociare nel canto spinto perché si instaura una lotta tra “leggi universali” e quelli che il soggetto pensa siano i meccanismi che danno vita ad un suono efficace.

Luciano Rispoli (Napoli, 18 febbraio 1946). Psicologo, psicoterapeuta italiano e fondatore della corrente scientifica ed epistemologica del Neo-funzionalismo

Se la capacità di comunicazione accomuna l’insegnamento del canto a quello di altri strumenti musicali, il primo differisce, oltre che per la natura dell’arte trasmessa, anche per la peculiarità’ dell’insegnante. Quando l’insegnante è o è stato un grande cantante, tende a voler fare dell’allievo una copia di se stesso per ciò che riguarda semplicemente il risultato vocale, l’effetto esterno, non partendo quindi dalle esigenze intime del canto. Altre componenti psicologiche derivano dal fatto che la deformazione professionale del cantante famoso sia l’egocentrismo e questo tende a riproporsi quando egli scende dal palcoscenico e comincia ad insegnare. Ritengo a riguardo che sia necessario porsi completamente al servizio dell’allievo; entrare empaticamente nel corpo dell’allievo ed essere quindi consapevoli del rapporto che c’è tra determinate coordinazioni muscolari e determinate sensazioni.

Donald Woods Winnicott (Plymouth, 1896 – Londra, 1971), pediatra e psicoanalista britannico.

Vi è infine un aspetto, quello riguardante le dinamiche psicologiche che il canto scatena in chi ne intraprende lo studio, con le insicurezze, i deliri di onnipotenza, le paure anche profonde che talvolta emergono. Spesso alcuni problemi persistono, sono irriducibili a qualunque tipo di rimedio, esercizio, tecnica, e non si trova una soluzione sino a che l’insegnante, parlando con l’allievo, non capisce quale sia la ragione profonda per cui quel difetto, quell’ostacolo, continuano a presentarsi. Può trattarsi di incomprensioni, errori di poco conto che si sono ingigantiti sino a diventare macigni in mezzo al percorso. Altre volte – quasi come in una seduta psicanalitica – si scopre che le motivazioni di un certo comportamento vocale reiterato ed errato sono da ricercarsi in convinzioni o meccanismi psicologici che solo in maniera accidentale riguardano il canto, ma che tuttavia sono tali da impedire o limitare molto una performance professionale.

Il buon insegnante, il maestro capace, deve quindi essere il più possibile attento al carattere e alla psicologia dell’allievo, deve cercare in una parola di “capirlo” – in relazione al canto – anche più di quanto l’allievo capisca se stesso, e di essergli vicino con onestà intellettuale e rigore nella sua evoluzione vocale e di futuro artista. Allo stesso tempo, nel rispetto del proprio ruolo, deve filtrare il coinvolgimento emotivo, poiché è più che ovvio che una situazione si giudichi meglio restando oggettivi. In questo modo si può forse riuscire ad evitare i deleteri eccessi a volte presenti nei rapporti maestro di canto-allievo, comportamenti che rischiano di condizionare nel discente emotività e apprendimento.