In copertina: Christos Theodorou, Statua di Giacomo Puccini a Lucca (foto di Livorno Daily Photo)
Composta per tenore, baritono, coro misto e un’orchestra di legni a due (ma con ottavino e due flauti oltre a tre tromboni), la Messa a quattro voci testimonia al massimo grado le qualità sviluppate da Puccini nei suoi anni lucchesi e, al tempo stesso, rivela già in nuce alcuni aspetti che sarebbero stati sviluppati dal compositore nel suo percorso artistico successivo. Per un verso si assiste infatti alle solide capacità tecniche che gli permisero di tessere idee musicali ben scolpite e di manipolarle con sicurezza, per l’altro risaltano alcuni tratti melodico-armonici – soprattutto nell’uso di certi cromatismi e parallelismi – che diventeranno tratto caratteristico dello stile pucciniano; non ultimo, notevole si rivela la cura nella scrittura orchestrale, cura che anticipa tanto l’acceso interesse sinfonico dei successivi anni milanesi, quanto l’attenzione prestata all’orchestra anche nella produzione operistica. Tali pregi permettono, a posteriori, di riconoscere i segni del compositore che Puccini sarebbe stato ma, al tempo stesso, non possono dirsi costanti in tutta la partitura, che si presenta infatti discontinua tanto dal punto di vista stilistico quanto nell’invenzione. Al di là dei limiti del giovane compositore, va tuttavia rilevata l’impasse della musica sacra europea di quegli anni: la frammentazione stilistica, la pressione della musica profana e, in Italia, del melodramma, avevano ingenerato infatti una certa confusione negli indirizzi della musica liturgica, che manifestava intenti tutt’altro che unitari. In un certo senso l’eclettismo stilistico della Messa a quattro voci non è quindi solo frutto dell’incertezza giovanile, ma anche specchio della situazione della musica liturgica del tempo, in cui arie dagli accenti melodrammatici convivevano con procedimenti imitativi e fugati percepiti quale segno distintivo della musica sacra, ma assunti più con atteggiamento manieristico che non con reale aderenza al contesto testuale e musicale. Ciò rilevato, il giovane Puccini fu capace di muoversi all’interno dello stile musicale sacro dell’epoca con grande disinvoltura e abilità, disseminando la vasta partitura di momenti di ispirata musicalità che la eleva a esempio non irrilevante nella musica sacra italiana di fine Ottocento.
8 agosto 1974, francobollo per il 50º anniversario della morte di Giacomo Puccini (foto da www.ibolli.it)
Il Kyrie ha struttura tripartita fondata su opposizione tonale e modale: alla prima sezione in la bemolle maggiore segue un’altra in fa minore prima della ripresa nel tono di impianto. Il trapasso dall’una all’altra parte avviene in modo consequenziale e senza cesure nette, coerentemente con il carattere essenzialmente unitario del numero.
La basilica di San Paolino a Lucca
L’ampia e articolata struttura del Gloria rende questa pagina, nonostante la disparità stilistica delle differenti sezioni, uno dei numeri della Messa che meglio testimoniano le qualità del giovane Puccini. I sei movimenti che lo compongono si snodano in un percorso tonale che, a partire dal luminoso do maggiore iniziale vi ritorna attraverso i toni di la bemolle, mi bemolle, re bemolle e fa maggiore, mostrando un certo interesse per relazioni tonali non accademiche che, va comunque rilevato, erano ormai ricorrenti nel linguaggio musicale del tempo. Un simile percorso tonale è in realtà prefigurato sin dall’inizio quando, in modo assai interessante, alla prima enunciazione tematica delle voci femminili in do maggiore, le voci maschili rispondono nel tono di Mib maggiore prima del tutti di nuovo in do. Al cuore del Gloria si trova l’Andante sostenuto affidato al tenore solo: si tratta di una pagina che, nonostante la riuscita della linea vocale, emerge all’attenzione soprattutto per la ricchezza di dettagli e finezze orchestrali. Un altro passo interessante risiede in chiusura del Cum Sancto Spiritu, convenzionalmente trattato con un fugato: in conclusione viene riproposto il tema iniziale del Gloria quale controsoggetto del tema di fuga, fatto attraverso cui viene assicurata una solida unità al numero.
Nella Messa confluì anche il Credo già composto ed eseguito due anni prima per le medesime celebrazioni della festa di San Paolino che ospitarono la Messa del 1880. Rispetto al luminoso carattere giubilare del Gloria, il Credo si rivela sin dalle sue prime battute percorso da un’intensa atmosfera drammatica e da un’atmosfera essenzialmente scura, rivelata già dal tono di do minore su cui è impostato il numero. Naturalmente ciò non esclude la presenza di passi improntati a maggiore serenità e il finale, sulle parole et vitam venturi saeculi, si snoda in do maggiore su un gioioso ritmo di 6/8.
Di fronte all’imponenza del Gloria e del Credo, le modeste dimensioni del Sanctus-Benedictus e dell’Agnus Dei arrecano al disegno complessivo un certo squilibrio, in parte compensato dalla riuscita dell’Agnus. Il Sanctus, in mi bemolle maggiore, è in una forma ternaria che oppone con efficacia, alla scrittura corale dei pannelli esterni, il solo della parte centrale. Ciò nonostante, il pezzo dà l’impressione di uno svolgimento affrettato, fatto che fu rilevato già dai primi ascoltatori. Diverso invece il caso dell’Agnus Dei, per tenore e baritono soli alternati al coro, il cui tono carezzevole appare assai appropriato e al tempo stesso originale, come la stampa lucchese non mancò di sottolineare recensendo l’opera.
L’ambivalenza della Messa a quattro voci, in tutta la sua disomogeneità stilistica, discontinuità d’invenzione e squilibrio formale, ma al tempo stesso in tutta la sua evidenza espressiva e nel suo magistero tecnico, è dimostrata in un certo senso dal comportamento dello stesso Puccini. L’efficacia e maturità di alcuni passi convinsero infatti il compositore a reimpiegarli in alcuni lavori successivi: il primo tema del Kyrie fu ripreso nell’Edgar, un frammento del Benedictus e l’intero Agnus Dei in Manon Lescaut. D’altra parte, tuttavia, non risulta che Puccini abbia mai accarezzato l’idea di organizzare una ripresa della Messa, neppure quando il suo prestigio e la sua notorietà ne avrebbero garantito certo un’ampia diffusione. La sorte dell’opera fu invece quella di essere nota solo agli specialisti, almeno fino a quando, nel 1951, Dante Del Fiorentino non ne diede la prima edizione a stampa con il titolo apocrifo di Messa di Gloria, permettendo al pubblico di accostarsi a un’esperienza di ascolto con cui apprezzare le doti giovanili di uno dei protagonisti della musica europea a cavallo tra Ottocento e Novecento.
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