Spiritual

L’espressione spiritual song è attestata in America fin dal Seicento per indicare in modo generico i canti sacri su testi dell’Antico e del Nuovo Testamento; a partire dal XX secolo, tuttavia, il termine spiritual è stato associato pressoché unanimemente ai canti di ispirazione religiosa degli schiavi africani deportati in America. In questa accezione, è difficile individuare in modo univoco l’origine di tale genere musicale; quel che è certo, invece, è che lo spiritual sorse dal contatto tra il sostrato musicale africano e la cultura musicale di matrice europea del luogo di deportazione, cultura con cui gli schiavi furono forzati a convivere. Non è infatti lecito affermare che la mescolanza culturale posta a fondamento dello spiritual sia stata frutto di uno scambio spontaneo, poiché si trattò piuttosto di un processo emerso, tra le maglie della violenza subita, da un compromesso attuato di necessità dagli afroamericani al fine di coltivare in qualche forma il legame con la cultura di provenienza. A partire dagli inizi del Seicento l’economia americana aveva iniziato a fondarsi in larga parte sullo sfruttamento di masse di schiavi provenienti dall’Africa impiegati principalmente in piantagioni di cotone, tabacco o caffè, in special modo nel Sud degli Stati Uniti. Venduti alla pari di qualsiasi merce, le condizioni di vita degli africani deportati erano durissime: soggetti a turni di lavoro massacranti, impossibilitati a far valere i propri diritti che venivano soffocati con le ragioni della frusta, furono costretti ad abbandonare gran parte dei costumi della loro cultura d’origine, inclusa la religione, per cosciente volontà degli schiavisti. Costoro, mossi tanto da un’etica condivisa che non poteva tollerare culti pagani quanto dalla necessità di ammansire gli schiavi attraverso i messaggi edificanti della religione cristiana, costrinsero gli africani a convertirsi al protestantesimo, obbligandoli a seguirne le funzioni sia in zone appartate all’interno delle chiese, sia in black churches appositamente allestite. Di fronte a tale sradicamento coatto, la musica rappresentò all’inizio l’unico strumento di coesione identitaria tollerato dai dominatori, benché fosse vietato l’uso dei tradizionali strumenti a percussione africani: la musica era esercitata soprattutto nelle riunioni serali in cui gli afro-americani si riposavano dalle fatiche della giornata esercitando vita di comunità e per sostenere le estenuanti ore di lavoro nei campi. Eseguito in forma responsoriale da un solista e dalla massa di lavoratori con il sostegno, quando possibile, del battito delle mani o dei piedi, se non da oggetti d’uso comune impiegati quale surrogato delle percussioni, il repertorio musicale che scaturì da queste manifestazioni musicali non era esente da canti di preghiera e di ispirazione sacra, il cui credo era oramai cristiano: gli afroamericani, convertiti al protestantesimo, interpretarono i princìpi cristiani infondendovi i tratti della spiritualità africana che era stata soffocata dalla soppressione forzosa dei loro culti. Ad esempio, già agli inizio del Settecento è attestata negli Stati Uniti la pratica del ring shout, in cui gli africani ballavano per ore in cerchio, accompagnati da battiti di mani, di piedi o dalla percussione di legnetti, in modo progressivamente più veloce fino a quando, invasati dallo Spirito Santo, cadevano esausti a terra. Come si può facilmente intuire dalla descrizione appena fatta, si trattava di una manifestazione religiosa squisitamente africana, combinata tuttavia con la spiritualità di matrice cristiana. Una simile attitudine investì verosimilmente ogni aspetto della vita degli afroamericani, e non è difficile immaginare che da un simile incontro non fu esente anche la musica, dando così vita al genere dello spiritual. Dapprima gli afroamericani fecero propri gli inni che ascoltavano durante le liturgie cristiane adattandoli alla propria sensibilità musicale, dando poi vita ad un proprio repertorio originale di canti. All’interno dell’innodia americana furono dunque importate strutture melodiche fondate su scale difettive, portamenti vocali e pratiche ritmiche, come quella di marcare il tempo debole della battuta con battiti di mani, di origine africana, fenomeni del tutto estranei alle consuetudini locali. I testi degli spiritual provenivano dalla Bibbia, tuttavia con una spiccata predilezione nei riguardi dell’Antico Testamento. Gli schiavi d’America vi trovavano infatti personaggi e situazioni affini alla propria sensibilità e in cui potessero rispecchiare la propria condizione di vita immaginando una forma di riscatto: non a caso tra i personaggi prediletti vi sono David, il pastore che sconfisse il gigante Golia con una fionda e, soprattutto, Mosé, colui che aveva posto fine alla condizione di cattività del popolo ebraico in Egitto. Tali episodi erano infatti letti alla luce della propria condizione di schiavitù e al tempo stesso, dell’aspirazione a una condizione migliore. La diffusione dei canti spiritual fu, vista la natura del fenomeno, essenzialmente orale fino a quando, nel 1867, William Francis Allen pubblicò Slave Songs of the United States, la prima raccolta a stampa di spiritual. Il passaggio alla scrittura non è casuale ed è sintomo di un mutamento radicale nella vita degli afroamericani: appena due anni prima, nel 1865, la vittoria nordista nella guerra di secessione aveva portato all’abolizione della schiavitù in tutto il territorio statunitense. A partire da tale momento lo spiritual cessò per certi versi la propria funzione storica ma non estetica; lungi dall’esaurire la propria vitalità, tra fine Ottocento e inizi Novecento confluì nel gospel, nel blues e nel primo jazz innervandone lo spirito e le strutture musicali.

Slave Songs of the United States (1867)

Gospel

Il termine gospel abbraccia un considerevole corpus di canti religiosi americani con testi di ispirazione sacra, frutto dell’esperienza religiosa personale di gruppi protestanti evangelici, sia bianchi che neri. Dopo i primi esempi degli anni Cinquanta dell’Ottocento, è solo a partire dalla fine del XIX secolo che il gospel ha assunto una propria fisionomia, divenendo progressivamente centrale negli innari della maggior parte dei protestanti americani. L’ispirazione evangelica dei canti è denunciata sin dal nome del genere, dal momento che in inglese il termine gospel, frutto di una contrazione tra God, Dio, e spell (sillaba, per metonimia parola), significa vangelo; i testi non attingono tuttavia solo ai vangeli, ma in generale a tutta la Bibbia e ai salmi in particolar modo. Fu impiegato per la prima volta in Gospel Songs di P. P. Bliss (1874) e in Gospel Hymns and Sacred Songs (1875) dello stesso Bliss e Ira D. Sankey, pubblicazioni che testimoniano i primi esempi del white gospel. È opportuno precisare infatti che, nonostante i molteplici punti di tangenza, white gospel e black gospel vanno considerati fenomeni differenti: il white gospel, sviluppatosi precedentemente, mantenne caratteristiche di maggiori semplicità ritmica e armonica rispetto al successivo black gospel. Dal momento che in Italia è essenzialmente quest’ultimo ad essere associato al genere gospel, ci si soffermerà in particolare su di esso. Il black gospel trovò la propria fisionomia soltanto a partire dagli anni Venti del Novecento. Praticato in origine nelle chiese da grandi cori, presto uscì fuori dalle sue sedi incontrando il favore popolare trovando spazio anche in occasioni laiche. Anche il black gospel sorse dall’incontro tra matrice culturale africana e americana come lo spiritual, da cui per certi versi prende le mosse: dallo spiritual ereditò, ad esempio, la scrittura responsoriale, in cui alla domanda del solista segue la risposta della compagine corale. Ciò che lo differenzia dallo spiritual è tuttavia la maggiore complessità musicale. Il gospel così come lo si intende oggi è infatti il frutto dell’incontro tra lo stile innodico di compositori come Lowell Mason e i suoi seguaci e i loro adattamento al gusto afro-americano, che arricchì i canti preesistenti ed elaborò un nuovo repertorio a partire da caratteristiche precipuamente africane. Personaggio centrale in questa prima definizione del black gospel fu il predicatore metodista Charles Albert Tindley, che compose egli stesso degli inni gospel che definirono alcuni aspetti essenziali del genere: scrittura responsoriale in alternanza di versetto e refrain, struttura pentatonica, armonizzazioni semplici. Il black gospel assunse la piena maturità solo tra gli anni Trenta e Quaranta quando, ormai divenuto parte essenziale dei canti comunitari delle black churches, fu soggetto agli influssi del blues e del jazz, che arricchirono il genere con abbondante uso di sincopi, oscillazioni microtonali, armonizzazioni per quarte o quinte. La diffusione del gospel fu tale che nel 1977 fu elevata a rango di principale repertorio innodico nel The New National Baptist Hymnal. Fin dalle origini il gospel era accompagnato da strumenti, dapprima esclusivamente a percussione (tamburi, triangoli, tamburelli), poi a corda pizzicata quale il banjo e, a partire dagli anni ‘20, dalla chitarra, cui si aggiunse presto il pianoforte; a partire dagli anni ‘50 fece la propria comparsa anche l’organo Hammond. Per quel che concerne lo stile vocale, il timbro tipico del gospel è a voce piena, a tratti rauca o sforzata; in special modo le voci femminili sono spinte verso il registro più acuto al fine di proiettare la voce al di sopra degli strumenti o, nel caso dei solisti, al di sopra della compagine corale, anche attraverso l’uso esteso del vibrato. La maggior parte dei pezzi gospel sono di andamento lento o moderato: i pezzi lenti sono caratterizzati da una scrittura ampiamente melismatica del solista sostenuta dal coro sullo sfondo; i pezzi di andamento moderato hanno invece carattere ritmico-percussivo e impiegano la scrittura responsoriale. A partire dagli anni Quaranta si diffuse una nuova organizzazione musicale, in cui al di sopra di una frase musicale reiterata in secondo piano si ergono le improvvisazioni testuali e vocali del solista, che introduce variazioni sul tessuto musicale dello sfondo: a questa categoria appartiene, ad esempio, Oh Happy Day di Edwin Hawkins del 1969.

Slave Songs of the United States (1867), p. 55