All’interno della storia delle avanguardie musicali del secondo Novecento, Bruno Maderna è il protagonista al quale, forse, è più complicato imporre schematiche definizioni. Questo perché tutto in lui fu vocato a un eclettismo, solo in apparenza dispersivo, e che, invece, gli produsse un’individualità rara, ancorché mai rinchiusa nell’isolamento. Maderna è nato a Venezia il 21 aprile del 1920 e, dunque, era solo di qualche anno più grande dei compagni di viaggio Nono, Berio, Boulez e Stockhausen – che assieme costituiscono la vetta delle esperienze artistiche di quegli anni -, tuttavia quanto bastava perché rappresentasse un punto di riferimento, sorta di pacifico primus inter pares, specialmente negli anni iniziatici e in quelli dei famigerati Ferienkurse di Darmstadt.

Cenni biografici

Attorno alla figura di Maderna, si sono convogliate tutte le caratteristiche biografiche necessarie perché il suo caso, ancora oggi, appaia velato di un fascino romanzesco. Già l’infanzia, segnata dal mito arcaico dell’enfant prodige, ricalca i contorni di tanta letteratura d’appendice. Durante i primi anni, cresciuto nell’alveo ruspante della locanda del nonno paterno, nei dintorni di Chioggia, Brunetto stupisce tutti con la sua abilità al violino ed è trascinato in ogni dove dal padre Umberto, che ne fa la vedette della sua orchestrina, la Happy Grossato Company.
Richiestissimo, ben presto si esibisce come direttore con importanti complessi sinfonici nel Nord Italia e, dopo anni movimentati e di successi, nel 1934 viene adottato da una facoltosa ammiratrice, Irma Manfredi, che diverrà a tutti gli effetti la vera madre di Maderna. I passaggi fondamentali nella sua educazione musicale sono, dal 1937 al 1940, lo studio a Roma1 con Alessandro Bustini, già maestro di Goffredo Petrassi, e successivamente l’incontro e la frequentazione di Gian Francesco Malipiero2, il quale lo inizia alla passione per il lascito rinascimentale e barocco, specie di scuola veneziana. Gli anni della guerra rallentano e disperdono le sue attività musicali e, chiamato alle armi, negli ultimi mesi del conflitto entra nella Resistenza. Nel dopoguerra, non più bimbo prodigio che entusiasma le folle oceaniche delle manifestazioni benedette dal regime, Maderna fatica a trovare un suo posto nel mondo musicale in ricostruzione; tuttavia, grazie all’appoggio di Malipiero, ottiene a più riprese, fra il 1946 e il 1952, degli incarichi di docenza presso il Conservatorio di Venezia, integrando i guadagni con altre due attività importanti: la composizione di musiche per film3 e la trascrizione di lavori vivaldiani per conto dell’Istituto Italiano Antonio Vivaldi e di Casa Ricordi. Infine, sempre per intercessione di Malipiero, il 21 settembre 1946, la sua Serenata per 11 strumenti figura nel programma della prima Biennale Musica del dopoguerra, occasione indubbiamente importante dato che, infatti, negli anni a seguire egli ritornerà al festival sia in veste d’autore che di direttore.

Bruno Maderna a Darmstad

Il Requiem

Se il nostro resoconto biografico si ferma ai primi ventisei anni di Maderna, estromettendo dunque il grosso della sua vita e carriera – che, fra l’altro, è quello più conosciuto e corrispondente all’immagine storica del compositore, essendo esso legato ai linguaggi della Nuova Musica – è perché a questa data troviamo il maggior oggetto del nostro interesse qui, ossia il completamento del grande Requiem per soli, coro e orchestra. La storia di quest’opera è avventurosa. L’idea di una grande missa defunctorum si affaccia nella mente di Maderna in pieno corso del conflitto mondiale. Ne possiamo ripercorrere a fatica la composizione piuttosto lunga e travagliata, ma sappiamo che Malipiero, cui per primo il Requiem viene menzionato in una lettera alla fine dell’estate del 1945, entusiasta, da un lato sprona periodicamente l’allievo a concluderlo e dall’altro mette in moto una serie di manovre di promozione. Quella apparentemente più promettente è la presentazione a Maderna del compositore e critico musicale statunitense Virgil Thomson, che rimane profondamente colpito dalla partitura e, oltre a parlarne entusiasticamente in un articolo sull’edizione europea del New York Herald Tribune, si adopera, ricevutane copia, per organizzarne una prima in patria. Ormai compiuto, dal settembre del 1946, il destino del Requiem rimarrà appeso a questa illusione. L’esecuzione infatti, per la difficoltà e il costo della produzione, non avverrà mai né in America né tanto meno in Europa e così, dimenticato per anni, superato negli interessi dallo stesso autore, di questo primo capolavoro se ne perdono le tracce, tanto che nel 1970 in un’intervista radiofonica, Maderna deve confessare a malincuore di averne perduto anche la partitura. Soltanto un recente lavoro di vera e propria investigazione è riuscito a rintracciare proprio la copia americana, la quale, dopo una serie di passaggi di mano, era finita accantonata nella biblioteca del Purchase College della New York University, dove adesso è conservata.
Sottoposto a un lavoro di revisione musicologica e poi alla pubblicazione a cura di Veniero Rizzardi, il Requiem è stato finalmente eseguito per la prima volta al Teatro La Fenice di Venezia, il 19 novembre 20094.
La struttura della messa, salvo alcune omissioni del testo quali l’Hostias o versi dal Benedictus e dal Libera me, non presenta grandi libertà formali rispetto la tradizione ed è divisa nettamente in due grandi parti, la prima composta da Introitus, Kyrie e tutta la Sequentia, la seconda dal Domine Jesu, dal Sanctus et Benedictus, dall’Agnus Dei, dal Lux Aeterna e, in aggiunta come nel corrispettivo verdiano, dal Libera me. Più interessante, invece, è notare che Maderna operi senza soluzione di continuità fra i movimenti di ogni singola parte e che anche la cesura fra le due sia tutt’altro che netta, affidata com’è ad una rivisitazione di cadenza sospesa, scelta chiaramente dettata dal desiderio di imprimere organicità.

Boulez, Maderna e Stockhausen a Darmstadt nel 1955

Diversa questione pone l’organico strumentale scelto dal compositore, certamente peculiare e formato, assieme agli archi, da ottoni (8 corni, 4 trombe, 4 tromboni, tuba) e percussioni (piatti, piatti sospesi, tam-tam, 2 tamburi, grancassa, 3 timpani), oltre che da ben tre pianoforti. Questa scelta sembra guardare abbastanza chiaramente alla nuova sensibilità timbrica portata dal Novecento in orchestra, con richiamo ai lavori di Bartók (Concerto per due pianoforti e percussioni; Musica per archi, celesta e percussioni; Sonata per due pianoforti e percussioni) e soprattutto di Stravinskij (Les Noces in cui troviamo il coro, i quattro solisti, un set molto ampio di percussioni e ben quattro pianoforti; Oedipus Rex con coro, solisti e grande orchestra tra cui percussioni e pianoforte; la Sinfonia di Salmi, per coro, orchestra con grande prevalenza di strumenti a fiato, percussioni e due pianoforti); ma è da tener conto anche di almeno due lavori recenti e dall’organico similissimo a quello del Requiem maderniano, ossia il Salmo IX del 1934/1936 (per coro, ottoni, percussioni, archi e due pianoforti), e proprio un Coro di morti del 1940/1941 (madrigale drammatico per coro maschile, ottoni, contrabbassi, percussioni e tre pianoforti), opere di Goffredo Petrassi, un autore, come abbiamo visto, piuttosto limitrofo al giovane Maderna.
Inoltre, come suggeriscono Baroni e Dalmonte, la scelta di escludere i legni e ricorrere ai soli ottoni potrebbe essere il tentativo di alludere ad una certa sonorità rinascimentale, come non vi è dubbio che la presenza del doppio coro, articolato variabilmente dalle otto alle quattro voci, sia omaggio alla policoralità veneziana del Cinquecento5. Anche il linguaggio generale di Maderna riceve spunti e stimoli stilisticamente assai vari, tuttavia prevale nell’opera un grande senso di continuità e di coesione. Laddove la scrittura si coagula in nuovi disegni, ciò non è mai traumatico, e la varietà, che d’altronde è dettata dalle situazioni suggerite dal testo, si realizza con alternative metriche, timbriche e figurali molto studiate. Il discorso viene condotto come un diaframma di punti apicali e di distensioni; e così la scrittura, sostanzialmente contrappuntistica, reagisce con maggiore e minore densità al trasporto emozionale e alle necessità coloristiche del momento. Prevale nella scrittura del coro l’adesione allo stile neomadrigalistico piuttosto comune nella generazione italiana precedente, con particolare riferimento proprio a Petrassi e alla scuola romana; mentre più in generale l’ambientazione armonica oscilla elegantemente fra un diatonismo, forse di derivazione malipierana e di ascendenza debussiana, e una più marcata presentazione di dissonanze.

Ecco una panoramica delle situazioni primarie della messa:

Requiem aeternam: inizio spoglio del solo coro a cinque parti, le quali vanno stratificandosi dai bassi ai soprani con spunti di pedalizzazione e imitazione. Scrittura madrigalistica, armonia diatonica che si increspa sul piccolo melisma armonizzato in corrispondenza della parola Domine. Una prima breve concitazione polifonica si ha in corrispondenza di Te decet hymnus. Senza soluzione di continuità si passa al

Kyrie: ingresso degli strumenti (i tre pianoforti, gli archi scuri divisi e quattro soli di violino, poi addirittura otto) e del doppio coro con sostegno degli ottoni su grande pedale degli archi gravi. Vi è un primo apice sonoro in corrispondenza della quinta enunciazione del Kyrie da parte del secondo coro, cui segue una transizione imitativa degli ottoni al Christe, quindi la nuova transizione al Kyrie basata sulla scansione ritmica dei timpani e su una cantilena degli ottoni, i quali anticipano il soggetto stentoreo dei tenori, che poi passa alle altre voci e agli strumenti con un parossistico crescendo, la cui ombra armonica negli archi lega senza soluzione di continuità al

Dies Irae: apre lo stridulo e raggelante flutter della tromba, subito seguito dall’inevitabile scatenarsi di tutte le forze in gioco, con particolare sdoganamento dei pianoforti. Caratteristica principale è l’instabilità metrica, aumentata dagli interventi irregolari della grancassa. L’improvviso vuoto del Quantus tremor è spiegabile come passaggio madrigalistico in cui il terrore per il giudizio finale è reso dal dilagare del ribattuto fra i soli degli ottoni – con sordina a eccezione della tromba – e nei contrabbassi divisi e “al ponte”, nonché dal continuum inesorabile dei colpi leggeri di grancassa “al bordo”. Il tutto mentre il coro canta incisi sparsi fra le sue sei parti.
Grande congestione – di nuovo affidata primariamente ai pianoforti che si producono in avventurosi glissando, tremoli e volatine – sul Tuba mirum, dalla segnaletica apertura sull’intervallo armonico di quinta la – mi, distribuito fra coro e ottoni. Qui a prevalere è l’uso di un modulo reiterativo e intensificante, contro il quale si muove la spinta cromatica degli archi in tremolo, quasi un alito che cerchi di spazzare via la tempesta sonora circostante.
Il Mors stupebit ancora una volta presenta una reiterazione imitata fra le parti, una figura trocaica, cromatica e discendente, vagamente verdiana.
Nel Liber scriptus troviamo il primo solo affidato al tenore e accompagnato da un coro femminile. L’atmosfera, originata da reminiscenze pucciniane, è quella del primo momento estatico, reso limpido dalla scrittura infranta in un mosaico di parti reali di ottoni e di archi divisi. Presto l’inquietante tema del Tuba mirum seziona quest’aria con un minaccioso quanto fugace ritorno, sicché è uno choc la pulizia dello spazio sonoro presente nel successivo Quid sum miser, ridotto ad un rullante, un acufene acutissimo dei violini primi e alla mesta corda di recita del tenore.
Seguono il Rex tremendae e il Recordare Jesu pie, questo, il secondo momento solistico della messa, un’aria per basso bachianamente accompagnata dai soli di tre violini e una viola.
L’Ingemisco entra perentorio con un duetto di tenore e basso modellato sul neoclassicismo stravinskiano, straniante e quasi buffo se non si stemperasse immediatamente e venisse superato dalla scolpita drammaticità del Confutatis Maledictis: ancora una volta visitato dallo spettro del Tuba mirum, questo episodio sfoggia bene la policoralità in passaggi squisitamente responsoriali.
Il Lacrimosa è un mottetto imitativo in cui tutte le forze entrano un passo alla volta e, pervaso da una commossa severità, viene chiuso con la sovrapposizione maestosa di una grande fuga, in un coro, al soggetto d’apertura del brano, nell’altro coro.
La Sequentia si chiude con la ricostruzione fatta da Giorgio Colombo Taccani, il quale sulla base di quanto suggerito dal manoscritto, ha scelto una conclusione speculare al grande crescendo da cui era nata dopo il Kyrie.
La seconda parte si apre con cinque rintocchi a piena orchestra prima dell’ingresso del coro, che pure si uniforma omoritmicamente a questo scampanio figurato. In maniera molto suggestiva, Maderna musica ogni frase due volte, ricorrendo prima alle voci femminili e ai pianoforti e poi alle voci maschili sostenute dalle percussioni e dagli ottoni, il che dona un inquietante dualismo a un testo in effetti diviso fra l’accorata preghiera di salvezza e le orride immagini infernali. La seconda metà del Domine Jesu è il primo solo del soprano nella messa, interrotto senza soluzione di continuità dalla giubilatoria del

Sanctus: nel Pleni sunt caeli vi è un nuovo duetto di tenore e basso sopra un fugato degli archi. L’Osanna finale appartiene sempre a quei passaggi incagliati nella loro circolarità più volte riscontrabili nell’opera, che pure rimandano a pratiche simili in Stravinskij. Si passa direttamente al

Benedictus: apre un’inquieta linea degli archi scuri, cui si sommano le altre parti divise per andare a creare una lunga introduzione a quella che si configura come un’aria del contralto, fino a questo punto non ancora destinatario di un momento solistico. Si scorre senza interruzioni all’

Agnus Dei: tornano il coro e il soprano. Bisogna soffermarsi sulla poetica Siciliana affidata al carillon di pianoforti, costruita attorno alla seconda ripetizione del testo e in cui il soprano duetta con il contralto. Sempre senza interruzioni, il

Lux aeterna: si apre con un suggestivo solo del trombone. Si segnala anche il parlato sull’invocazione finale Requiem aeternam dona eis, Domine; et lux perpetua luceat eis. Infine, usualmente senza pausa, si passa all’ultimo numero, il

Libera me: secondo la consuetudine antica, recupera parte del materiale musicale dell’Introitus e della Sequentia.

Altre opere per coro

Occorre dichiarare subito e apertamente che i lavori destinati da Maderna al coro non solo sono letteralmente contabili sulle dita di una mano, ma, ad esclusione del Requiem già visto, hanno ruolo ancillare all’interno di più vaste e composite opere. Tuttavia, seppur pochi, esistono esempi che testimoniano la considerazione di Maderna verso il coro come mezzo complementare e utile alla caratterizzazione drammatica della composizione.
Il primo esempio che incontriamo cronologicamente è Tre liriche greche, raccolta del 1948 per soprano, coro da camera e strumenti, ricordata fondamentalmente per essere uno dei primi avvicinamenti di Maderna alla tecnica dodecafonica. Tra il 1963 e il 1970, Maderna lavora a più riprese a versioni di un’idea che si configura come una vera e propria ossessione compositiva, ossia la storia di Hyperion, protagonista del romanzo epistolare di Friedrich Hölderlin. Nel 1970, l’autore dirige a Vienna Hyperion für Sopran, Chor und Orchester, una suite in cinque parti massimamente costruita dall’aggregato di brani e di esperimenti scenici precedenti6, ma vivificata dalla composizione di nuovi interventi corali: Psalm e Schicksalslied. Il primo ambienta la preghiera che segue alla morte di Diotima e alla frustrazione dei progetti di Hyperion, utilizzando testi di Auden e Lorca; il secondo è il finale “canto del destino” del protagonista in riva al mare, che anche Brahms aveva messo in musica. Ma non stupisce che il riferimento stilistico principale di Maderna sia invece la polifonia imitativa cinquecentesca. Il lascito più interessante con presenza corale rimane Ages, composizione del 1972 dal curioso titolo di “invenzione radiofonica” e libretto di Giorgio Pressburger, su spunto del monologo di Jaques da As you like it di Shakespeare. Un coro femminile entra nella quarta e ultima parte di questo lungo lavoro pensato per la trasmissione in radio e che mette assieme strumenti, voci maschili, femminili e infantili, un ampio ricorso all’elettronica e, per l’appunto, il coro7. Questo canta le parole iniziali del testo, «All the world’s stage» con un effetto spettrale di remotissima provenienza, un secondo piano sonoro rispetto al primo della declamazione delle voci e degli strumenti manipolati dall’elettronica. È suggestiva la proposta di Massimo Mila, il quale, trattandosi il lavoro di una riflessione sulle età della vita e trovandosi il coro in ultima posizione, suggerisce un parallelo fra quel «tutto nel mondo è palcoscenico» col «tutto nel mondo è burla», a chiosa del Falstaff – non a caso ancora Shakespeare – di un Verdi per l’appunto ormai vegliardo8. Tuttavia nulla della spumeggiante polifonia operistica verdiana è riscontrabile nella pagina di Maderna, che ancora una volta affonda nelle risorse del neomadrigalismo con una scrittura episodica e una condotta delle parti di severa matrice contrappuntistica. Naturalmente, non si pensi più alle sonorità del Requiem: il linguaggio è quello maturo dell’autore, segnato dalle esperienze del serialismo e persino della sua iniziale crisi.

Bruno Maderna

1. Dallo stimolante ambiente romano nasce la prima stagione creativa, fatta di lavori quali il Concerto per pianoforte ed orchestra, l’Introduzione e Passacaglia “Lauda Sion Salvatorem”, un Quartetto per archi, tutte opere degli anni 1941/43, fino alle Liriche su Verlaine, alla Serenata per 11 strumenti e al Concerto per due pianoforti e strumenti, lavori che, per dirla con Massimo Mila, segnano «l’ingresso in una zona di cosciente responsabilità» (Massimo Mila, Maderna musicista europeo, Torino, Einaudi, 2013, p. 9).
2. Gian Francesco Malipiero (1882-1973), della cosiddetta generazione dell’‘80, assieme ad Alfredo Casella (1883-1947), fu l’esponente certamente dalla cultura più internazionale e che promuoveva un personale ideale artistico di eguale sentimento per la conservazione della lezione degli antichi e per le esigenze di svecchiamento del linguaggio tardo ottocentesco.).
3. Fra gli altri, Sangue a Ca’ Foscari di Max Calandri (1947), Le due verità (1951) e Noi cannibali (1953) di Antonio Leonviola.
4. Solisti erano Carmela Remigio, Veronica Simeoni, Simone Alberghini, Mario Zeffiri; l’Orchestra e il Coro del Teatro erano diretti da Andrea Molino e Maestro del Coro era Claudio Marino Moretti.
5. Mario Baroni – Rossana Dalmonte, Bruno Maderna. La musica e la vita, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2020, p. 28. Troviamo il doppio coro nei passaggi di Kyrie, Dies Irae, Lux Aeterna e Libera me; il coro a otto voci nel Dies Irae, mentre a sei voci anche in Domine Jesu Christe, Sanctus, Benedictus e Libera me; a cinque voci vi è solo il Requiem Aeternam, mentre a quattro voci vi sono interventi nel Dies Irae, nell’Agnus Dei e nel Libera me; infine, nel Liber scriptus, all’interno della Sequentia troviamo l’intonazione di un coro a quattro voci femminili.
6. A una precedente versione scenica in lingua fiamminga, Hyperion en het Geweld (Hyperion e la violenza), allestita nel 1968 a Bruxelles, appartiene inoltre un coro parlato (Zombieschorus): strettamente legato alla trama dell’azione e alla precipua e diversa rivisitazione del racconto hölderliano, non è poi confluito nella suite del 1970.
7. Il coro esiste anche come All the world’s stage, pubblicazione autonoma e a cappella, con titolo proprio il motto shakespeariano su cui si basa.
8. Massimo Mila, Maderna musicista europeo, Torino, Einaudi, 2013, p. 94.