Foto: La Leggenda del Piave, ed. a stampa del 1918

Elaborazione e armonizzazione corale di un canto d’autore

«Il canto è una naturale tendenza dell’uomo: esso si ricollega a tutte le manifestazioni della nostra vita in quanto rappresenta il più spontaneo mezzo per esprimere i sentimenti. Uno stato sentimentale o passionale […] è uno stato musicale e aspira ad esprimersi e riesprimersi mediante note»1.

Con questa citazione si apre l’introduzione del libro Canti delle Trincee di Cesare Caravaglios. In riferimento in modo specifico al canto di guerra, l’autore sottolinea che il canto ha la funzione di esternare l’anima interiore del soldato e, quando si canta in gruppo, la coralità sviluppa un senso di solidarietà e collaborazione, unendo uomini provenienti dalle più svariate regioni in un destino comune2. Anche se il libro è stato pubblicato nella prima metà degli anni Trenta, le parole di Caravaglios sono un ottimo spunto per affrontare il tema della coralità popolare. Per questo motivo è necessario ripercorrere brevemente la storia dell’evoluzione del coro di canto popolare. La prima fase della coralità popolare potrebbe definirsi “spontaneistica”. All’inizio, infatti, il coro popolare era formato da pochi uomini, che non avevano sempre una preparazione musicale specifica ma erano intonati, avevano orecchio e conoscevano i canti popolari della zona di riferimento. L’abilità di questo tipo di coralità consisteva nell’improvvisare il canto sulla base di tre/quattro linee sonore. La seconda fase, iniziata dopo la fine della Grande Guerra e ancora oggi in atto, è quella dell’armonizzazione e dell’elaborazione. Già negli anni Venti infatti i direttori dei cori popolari cominciarono a prestare attenzione alla semplicità e alla linearità del canto “dilettantistico”, decidendo di trasformare questa spontaneità in una trascrizione armonica più articolata. Inoltre, dopo gli anni Cinquanta, cominciarono a formarsi cori non più solo maschili, ma anche solo femminili o misti3. Le parole chiave che hanno segnato la storia della coralità popolare, dunque, sono tre: gruppo spontaneo, armonizzazione, elaborazione. Il maestro e compositore Giacomo Monica fornisce una chiara spiegazione dei tre termini in riferimento alla pratica corale: con canto spontaneo si intende un’esecuzione musicale libera, priva di regole musicali, esecutive ed interpretative fisse. L’armonizzazione, processo colto e meno spontaneo, è la forma più semplice per arricchire una melodia: infatti, l’impianto prevede l’andamento omoritmico delle voci. Infine, per elaborazione si intende un procedimento compositivo che prevede una scrittura più articolata, inserendo imitazioni, modulazioni o entrate a canone delle voci.

La Leggenda del Piave

Anche se è entrato a pieno titolo nel repertorio popolare, in realtà la Leggenda del Piave è un canto di ispirazione popolare, in quanto un autore specifico si è occupato della melodia, del testo e della prima elaborazione del brano, ricalcando tuttavia moduli e tematiche popolari a tal punto da valorizzare quella semplicità che contraddistingue il canto popolare.
Si è scritto molto sul testo della Leggenda del Piave e sulle sue varianti, mentre si è dedicata meno attenzione alla musica. Una breve introduzione di contesto: l’autore della canzone, E. A. Mario, nome d’arte di Giovanni Ermete Gaeta, all’epoca lavorava in un ufficio postale, in quanto esente dal servizio militare perché ultimo figlio di madre vedova. Tuttavia, il lavoro non impediva al compositore di andare al fronte con un mandolino tascabile e fornire conforto musicale ai soldati. L’autore scrisse note e versi della canzone di getto. Nel 1917 l’Italia subì la dolorosa sconfitta di Caporetto e si narra che, proprio uscendo dall’ufficio, a seguito della vittoria della battaglia del Solstizio (22 giugno 1918), su un foglio per telegramma (oggi conservato al Museo Nazionale delle Poste e delle Telecomunicazioni) Gaeta scrisse di getto le prime tre strofe della canzone, con l’intento di recarsi poi al Fronte ad insegnarla ai soldati, per fornire coraggio e per rendersi utile alla Patria. La quarta strofa, invece, venne improvvisata e scritta durante uno spettacolo il 9 novembre 1918, cinque giorni dopo la fine della guerra4.
La sua Leggenda ebbe un successo enorme. Come detto sopra, tuttavia, se si è dedicata fin troppa attenzione al testo, minor considerazione è stata riservata alla musica.
La prima versione della Leggenda del Piave fu per canto e mandolino. Piccola curiosità: la scelta dello strumento non è casuale. Il mandolino era lo strumento da lui scelto per portare la sua musica al fronte ma anche quello grazie al quale si era avvicinato al mondo musicale. Infatti, all’età di dieci anni, Gaeta trovò nel negozio di barberia del padre un mandolino abbandonato, e da quel momento iniziò a studiare musica. Un altro elemento da segnalare è che la prima trascrizione musicale della Leggenda contiene le indicazioni per eseguire il brano tre volte, mentre non si accenna alla quarta strofa, anche se il testo di quest’ultima viene riportato. Questo perché la versione originale della canzone prevedeva tre strofe, non quattro.
Il brano La Leggenda del Piave per canto e mandolino è in sol maggiore, in 2/4, da eseguire in modo piano e allegro; l’introduzione è particolare, poiché le ultime quattro battute dell’introduzione sono costruite sulla dominante (re) e le ultime due sono a distanza di un’ottava rispetto alle prime due.

La versione per canto e pianoforte

La musica del Piave fu elaborata o armonizzata? A dire la verità, entrambe: fu elaborata per canto e pianoforte e, sulla base di quest’ultima, fu armonizzata prima per coro maschile e poi per coro misto. La versione per canto e pianoforte, pubblicata già nel 1918 dalla casa editrice E. A. Mario, è interessante perché contiene più informazioni sulla modalità di esecuzione; il brano è nella tonalità di la bemolle maggiore, il tempo rimane sempre 2/4. La linea melodica del pianoforte è all’unisono con il canto e, anche nell’introduzione, le ultime quattro battute sono impiantate sulla dominante della scala (mi bemolle, ovvero la quinta nota della scala di la bemolle), e le ultime due sono a distanza di un’ottava dalle prime due.
La linea del basso, invece, è un po’ più articolata. Nelle prime due battute il basso realizza, sia per il primo che per il secondo quarto, un accordo spezzato: prima viene suonata la fondamentale (la bemolle) e poi le altre due note dell’accordo (do e mi bemolle). Nelle ultime quattro battute prima dell’inizio del canto la linea dell’accompagnamento segue un ritmo diverso rispetto alla linea melodica: parte sempre dalla quinta (mi bemolle) e finisce con la quinta, ogni battuta contiene due semiminime e ciascuna semiminima prevede la stessa nota trasportata all’ottava sotto (es. mus. 1). La prima e la terza battuta sono a distanza di un’ottava mentre la seconda e la quarta sono a distanza di ottava solo per il primo quarto perché il secondo quarto torna sulla dominante. Per il resto del brano la linea del basso procede con questo ritmo spezzato, tranne in alcune battute dove il canto è fermo e il basso sembra quasi commentare la linea melodica (es. mus. 1).

Esempio musicale 1

La Leggenda del Piave nasce per essere diffusa in un contesto militare e, a tal proposito, è tanto significativo quanto doveroso sottolineare che, solo nello spartito per canto e pianoforte, esiste un’indicazione che avvalora questa ipotesi: la dicitura cassa sola, precisamente a battuta 32 (es. mus. 2). È probabile che la versione per canto e pianoforte sia stata elaborata pensando al brano come a una marcia5. Le indicazioni dinamiche, invece, sono mantenute inalterate in tutte le armonizzazioni ed elaborazioni: tutto il canto è pp (pianissimo), mentre le ultime due battute sono ff (fortissimo). È particolare l’indicazione usata da E. A. Mario nella battuta che avvisa chi ascolta dell’arrivo dei fanti: sotto alla battuta, infatti, è riportato il termine “misterioso”, quasi volesse enfatizzare l’arrivo furtivo dei soldati (es. mus. 2).

Screenshot

Esempio musicale 2

La leggenda del Piave per canto e mandolino

Armonizzazioni ed elaborazioni corali

Dalla versione per canto e pianoforte si passa, successivamente, alle armonizzazioni ed elaborazioni corali. Molte di queste sono scritte per coro maschile, ma è doveroso segnalare che, seppur meno frequenti, esistono anche armonizzazioni per coro misto.
L’armonizzazione per coro maschile di Patrizio Paci presenta qualche modifica rispetto all’originale; l’introduzione del brano è più corta, vengono riprese solo le prime due battute della versione per canto e pianoforte, poi inizia direttamente il canto.
Il brano si presenta prevalentemente omoritmico, anche se con un’entrata a canone: iniziano prima i tenori I e II, e dopo 2/4 entrano i baritoni e i bassi. Solo la linea del basso prende un respiro “all’arrivo dei fanti” per fare una sorta di bordone poco prima che le altre voci inizino la frase tacere bisognava andare avanti. Anche le dinamiche sono meno rilevanti: il brano continua a prevedere un’alternanza di pp e f ma senza enfatizzare i momenti più salienti della canzone, come l’arrivo dei fanti. A differenza della versione per canto e pianoforte, l’armonizzazione corale del maestro Paci è in 4/4, in tonalità di do maggiore e l’introduzione del tenore I inizia con la terza della scala (ovvero con la nota mi), mentre il tenore II inizia con la fondamentale (do). La stessa analisi vale per l’armonizzazione per coro misto, sempre del maestro Paci6, con l’unica differenza che il brano è in tonalità di sol maggiore. Anche in questa versione i soprani iniziano con la terza dell’accordo (ovvero la nota si) e i contralti con la nota sol (fondamentale). A differenza, quindi, della versione per canto e pianoforte del 1919 manca completamente la quinta nota della scala.

Infine, la versione elaborata del maestro Gianni Malatesta è decisamente interessante: quasi ad occhio si capisce che il brano non è tutto omoritmico; è per tenore e basso, in tonalità di do maggiore ed ha un ritmo di 2/4. Il brano inizia con l’introduzione del tenore, che riprende la versione per canto e pianoforte, mentre il basso inizia a battuta 7, cantando una melodia diversa da quella del tenore. Entrambe le voci, in modo alternato, imitano alcuni squilli di tromba. Infine, il basso canta da solo la seconda parte della strofa (Muti passaron quella notte i fanti), e il tenore lo segue in modo omoritmico circa quattro battute dopo (Tacere bisognava e andare avanti).
A differenza delle altre versioni fin qui analizzate, non v’è traccia di indicazioni dinamiche. Inoltre, una curiosità sul testo nell’elaborazione di Malatesta: la versione originale prevede la frase Ma in una notte triste si parlò di tradimento; in questa, invece, troviamo scritto Ma in una notte triste si parlò di un fosco evento. Questa censura risale agli anni del fascismo, e più precisamente al 1928, quando il ministro Belluzzo scrisse a E. A. Mario di modificare tutti i versi che facevano riferimento al presunto tradimento dell’esercito durante la disfatta di Caporetto. Per questo motivo anche il verso dell’onta consumata a Caporetto fu sostituito con poiché il nemico irruppe a Caporetto.
La Leggenda del Piave nacque con l’intenzione di essere suonata in un contesto militare, ma questo non ha impedito che la musica venisse armonizzata ed elaborata per coro, sia maschile che misto. Le armonizzazioni corali del canto hanno sicuramente mantenuto il senso di marcia militare con il loro andamento omoritmico, ma hanno forse perso di vista il rapporto tra musica e testo: quest’ultimo non viene enfatizzato con dinamiche precise, come invece spesso espresse da Gaeta. L’elaborazione corale, in questo caso, è la forma che più si avvicina all’intento originale dell’autore, in quanto le voci si alternano nell’imitare quelli che sembrano squilli di tromba.

Le armonizzazioni e le elaborazioni corali, quindi, mantengono intatta solo in parte la spontaneità della musica e del canto nati, in quella notte di giugno 1918, dalla mente e dalla penna di Giovanni Ermete Gaeta.

1. E. Romagnoli, Musica e poesia dell’Antica Grecia, Laterza, Bari, 1911, p. 210.
2. C. Caravaglios, I canti delle trincee. Contributo al folklore di guerra, C.C.S.M., Roma, 1934, p. 5.
3. P. P. Scattolin, Un secolo di canto popolare, in «Choraliter», anno XI n. 33, settembre-dicembre 2010, pp. 2-7.
4. Ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni, E. A. Mario: La leggenda del Piave, Roma, Ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni, 1984, pp. 9-10.
5. La Leggenda non è l’unico brano in cui Gaeta inserisce indicazioni che rimandano a precisi strumenti. In un altro suo brano famoso, Soldato Ignoto, scritto nel 1921 in occasione della tumulazione della salma del Milite Ignoto, inserisce l’indicazione tamburo scordato, uno strumento caratterizzato dai tiranti allentati e utilizzato per segnare il passo durante le cerimonie rituali.
6. https://issuu.com/pacipatrizio/docs/voci_e_storie_d_altri_tempi_pacir?utm_medium=referral&utm_source=www.patriziopaci.it, pp. 130-133 (consultato il 15/06/2024).