Intorno al 1720, Domenico Zipoli risiede a Cordoba, in Argentina, da dove collabora assiduamente con i confratelli gesuiti delle reducciones del Paraguay. Li rifornisce della musica da far eseguire agli indios Guaranì.
In questa popolazione, i gesuiti avevano riscontrato una notevole propensione alla musica e alla musica si erano affidati per concretizzare il loro programma, che mirava a organizzare gli indios da loro convertiti perché fossero in grado di sostentarsi autonomamente, sfuggendo allo sfruttamento dei colonizzatori spagnoli. Non si basavano solo sul dato economico: cercavano un riscatto generale, come persone e come popolo, dei Guaranì, puntando sull’istruzione e sulla formazione culturale. Insegnarono a costruire strumenti musicali, poi commerciati in Europa (i violini guaranì erano, nel Settecento, rinomati), insegnarono, naturalmente, a suonare e cantare. Nelle retrovie, altri gesuiti componevano la musica destinata ad essere eseguita nelle reducciones. Zipoli ne scrisse tantissima, tra i quali numerosi salmi per l’uso liturgico di tutto l’anno. Quelli che ho avuto modo di eseguire in alcuni concerti nei mesi scorsi, sono per coro, due violini e basso continuo. Il coro è a tre voci, SAT: i guaranì erano piccoli di statura e tutto era in proporzione, sicché non esprimevano voci in tessitura profonda. L’esperienza delle reducciones è oggi conosciuta soprattutto grazie alla ricostruzione del film Mission: e da lì sappiamo come andò malamente a finire, stroncata dagli spagnoli. Ancor oggi però, il ricordo di Zipoli è vivo tra le popolazioni indigene del Sudamerica.
Più o meno negli stessi anni, Benedetto Marcello scriveva l’Estro poetico-armonico: un lavoro monumentale, in otto volumi, nei quali mette in musica i primi 50 salmi. Nel III e IV volume, una decina di salmi sono intonati su temi che provengono dalle sinagoghe del Ghetto di Venezia. Nella stampa del volume, Marcello, al momento di utilizzare il tema, lo premette alla sezione del salmo in cui viene utilizzata, precisando in quale sinagoga si cantava e riportando il testo in caratteri ebraici: il tutto, musica inclusa, rigorosamente scritto da destra a sinistra, more hebraico. Ho potuto realizzare queste citazioni grazie alla consulenza dell’allora rabbino di Venezia, rav Elia Richetti, senza il quale non mi sarebbe stato possibile, non solo capirle, ma nemmeno pronunciare il testo né collocarlo sotto le note. Nella Venezia di primo Settecento, dove gli ebrei, per quanto più liberi che nei secoli precedenti, restavano una minoranza discriminata, Benedetto Marcello mostra una apertura e curiosità intellettuale che lo portano a superare ogni pregiudizio.
Cantare queste musiche in un momento in cui tutti gli stereotipi sembrano riprendere forza e ridare alimento a razzismi e nazionalismi, mettendo in pericolo la convivenza pacifica tra i popoli e dentro i popoli, mi ha fatto riflettere e spero abbia fatto riflettere quanti con me le hanno eseguite e quanti le hanno ascoltate. Zipoli e Marcello ci precedono di tre secoli, indicandoci una strada che faremmo bene a percorrere, se ne siamo ancora in tempo.
Domenico Zipoli, vespri di Sant’Ignazio
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