Diceva Andrea Zanotto, in un’intervista rilasciata una ventina d’anni fa, che alla parola chiediamo così poco, da lasciarne stravolgere il significato. Anzi: da farle perdere il significato.
Quello che il poeta lamentava, lo possiamo verificare ogni giorno: nell’informazione, nella politica, nella pubblicità le parole vengono adoperate con disinvoltura, piegate alla necessità del momento, strumentalizzate per ogni evenienza; buttate lì, si consumano in rapidi fuochi, quando non in subitanee esplosioni, che durano una stagione, un giorno, un istante e poi scompaiono. Nemmeno il mondo della cultura si sottrae a questo scempio, popolato com’è da personaggi dediti più alla mondanità che allo studio, maschere della commedia dell’arte più che intellettuali.
E noi che cantiamo, riusciamo ancora a conservarlo, il valore della parola? In fondo, siamo agevolati. Nel canto, non solo parola e musica formano un tutt’uno, ma l’una arricchisce il senso dell’altra. Il canto gregoriano, da questo punto di vista, resta un’esperienza insuperata. Autentica esegesi del testo, come spiegano Alessio Romeo e Cora Canini negli interventi che chiudono il dossier dedicato alle parole del canto, guida a comprendere più profondamene il significato dei passi biblici utilizzati dalla liturgia, offrendone un’interpretazione teologica.
L’altra grande stagione dove la parola e la musica vivono un rapporto strettissimo è quella del madrigale, di cui tratta Dario Tabbia nel suo contributo. La musica nasce dalle parole, dalle immagini che queste suscitano, ma anche dai suoni stessi della parola, che ha una sua intrinseca musicalità: il compositore è chiamato ad estrarla, in un procedimento che richiama quello michelangiolesco di fronte al marmo. La parola può avere tante sfumature, o addirittura tanti significati: nessuno, però, arbitrario e la musica ne sottolinea l’uno o l’altro.
Temi che troviamo anche nell’intervento di Mauro Zuccante, soprattutto nel suo rapporto con l’amato Pascoli, tante volte presente nei suoi lavori; e, a parti invertite, incontriamo in un poeta come Piumini, chiamato a scrivere per la musica e comunque musicato da molti compositori, tra i quali Andrea Basevi, che ne cura l’intervista.
Il coro, lo abbiamo ricordato molte volte anche nelle pagine dalla nostra rivista, è luogo dove si sperimentano buone pratiche sociali, si costruiscono relazioni positive, si sviluppano personalità positive e responsabili. Se riuscissimo anche a farne il luogo dove si fa buon uso del bene prezioso della parola e del suo significato, avremmo davvero chiuso il cerchio.
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Mentre scriviamo, dobbiamo registrare una risalita rapida, improvvisa, (inattesa?) dei contagi. La parola quarantena non si pronuncia, se non sottovoce, ma aleggia. Quando queste righe si leggeranno, forse sapremo già com’è andata a finire.
Ma, a proposito del significato delle parole: il nostro è un cantare da amatori, i nostri sono cori amatoriali. E qui ci sarebbe da scrivere un dossier, sul concetto di amatorialità: una parola che, buttata lì, diventa sinonimo di passatempo, disimpegno, superficialità. Un lusso dei tempi facili, insomma, da accantonare quando i problemi costringono a pensare alle cose serie.
Si farà quel che si deve, seguendo le indicazioni che verranno date: nella speranza, però, che chi deve prendere le decisioni, di fronte ai problemi sociali e psicologici creati dall’isolamento, sappia che l’incontrarsi di persone che amano il canto vale e va preservato almeno quanto ritrovarsi al bar o in pizzeria.
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