Luca Buzzavi
Gregorianista e docente di Direzione di Coro per Didattica della Musica presso il Conservatorio di Monopoli ed Esercitazioni Corali presso l’Istituto Superiore di Studi Musicali di Modena.
Lo studio del Canto Gregoriano sta registrando un crescente interesse soprattutto da parte di giovani studenti che trovano in esso una notevole fonte di ispirazione per gli studi musicali. La Scuola di Canto Gregoriano AERCO, di cui ho il piacere di essere il Responsabile Scientifico, si occupa di creare occasioni di formazione, confronto e scambio tra fruitori di qualsiasi provenienza ed esperti di fama del settore. Fa parte del modus operandi della Scuola, sia nei corsi online che in presenza, che allievi e docenti collaborino attorno a progetti di studio e analisi, ponendo in posizione preminente l’esigenza di collaborazione e mutua interazione attorno a un repertorio che è ontologicamente stratificato, multiforme e che parla all’Uomo contemporaneo.
Sulle pagine di FarCoro si è già affrontato il tema della proprietà del repertorio gregoriano. Sappiamo bene, quindi, che il canto liturgico medievale copre l’intero anno liturgico fornendo materiali, intonazioni, prescrizioni per ogni liturgia. In particolare, in preparazione alla Pasqua di Resurrezione, si assiste a un magnifico sforzo compositivo che, seppure raramente eseguito nella Liturgia corrente, esige di essere quantomeno conosciuto. Con questo spirito di osservazione e ricerca, due allieve della Scuola di Canto Gregoriano si sono adoperate per fornire ai lettori alcune suggestioni interessanti riguardo al repertorio della Settimana Santa, in preparazione alla Dominica Resurrectionis. Qui di seguito leggeremo, dunque, una serie di appunti, spunti, curiosità utili a chi vorrà approfondire questo vasto e affascinante bacino musicale ed esegetico.
Barbara Bolognese
Allieva della Scuola di Canto Gregoriano
La Settimana Santa si apre con la ricca liturgia della Domenica delle Palme, chiamata anche col nome di Dominica de Passione Domini, poiché durante la celebrazione v’era l’uso di recitare la Passione. La celebrazione della Domenica delle Palme nasce a Gerusalemme attorno al IV secolo, con lo scopo di riprodurre quanto più fedelmente possibile l’ingresso di Gesù a Gerusalemme. La pellegrina Egeria, nella sua lettera ora nota col nome di Peregrinatio Aetheriae, nel raccontare la ritualità dell’anno liturgico a Gerusalemme ce ne dà testimonianza:
Perciò all’ora settima tutto il popolo sale al monte degli Ulivi, cioè ad Eleona, e con esso il vescovo, alla chiesa, dove si recitano inni e antifone adatti al giorno e al luogo, e le letture allo stesso modo. E quando si avvicina l’ora nona salgono con inni all’Imbomon, cioè al luogo da cui il Signore è asceso al cielo, e là si siedono, perché tutto il popolo è sempre invitato a sedere quando è presente il vescovo; i diaconi soli stanno sempre in piedi. Si recitano inni e antifone adatti al giorno e al luogo, intervallati da letture e preghiere.
E mentre si avvicina l’ora undicesima, si legge il brano del Vangelo, dove i bambini, portando rami e palme, incontrarono il Signore, dicendo: Beato colui che viene nel nome del Signore, e subito si alza il vescovo, e tutto il popolo con lui, e tutti a piedi dalla vetta del monte degli Ulivi, tutto il popolo lo precede con inni e antifone, rispondendo l’un l’altro: Benedetto colui che viene nel nome del Signore.
E tutti i bambini del vicinato, anche quelli che sono troppo piccoli per camminare, sono portati in spalla dai genitori, portando tutti rami, alcuni di palme e alcuni di ulivi, e così il vescovo è scortato allo stesso modo in cui il Signore era un tempo.
Il rito della Domenica delle Palme, prima di approdare a Roma, viene assorbito ed arricchito dalla tradizione Gallicana, specialmente per quel che riguarda i riti processionali che precedono la messa vera e propria. Ne troviamo traccia, ad esempio, nelle due grandi antifone processionali Collegerunt pontifices e Cum audisset populus, testimoniate come parte viva della liturgia processionale nei codici più antichi e di chiara origine gallicana. Collegerunt pontifices, con la sua ricchezza compositiva, è estremamente fiorita e caratterizzata da grandi salti melodici, lunghe e complesse recitazioni sulla corda di re com’era proprio dell’uso gallicano, ed elementi caratteristici come l’uso di figure melodiche codificate a livello neumatico dal caratteristico e raro pes stratus, presente in alcuni dei codici sangallesi che riportano l’antifona. È presente, inoltre, un frammento compositivo nello stile della musica liturgica romano-antica, proprio sulla parola “Romani”: è una curiosa testimonianza del modo in cui la “cantilena romana”, com’era allora definita, era percepita per contrasto nella cultura gallicana.
Ad oggi, durante la liturgia processionale risuonano le antifone Hosanna Filio David e Pueri Hebræorum. L’antifona Hosanna Filio David, caratterizzata da un grande slancio iniziale verso l’alto, canta gioiosa in settimo modo ma contiene già in sé il seme della passione: infatti sulla parola “Israel” si ode un brusco cambio di atmosfera, poiché vi è presente un frammento in deuterus, il modo della Passione, quasi onnipresente durante la settimana santa. Tale frammento richiama, ad esempio, l’Introito Reminiscere della prima settimana di Quaresima, in deuterus, dal testo grave e in qualche modo profetico dell’atmosfera della Settimana Santa, e in cui compare lo stesso frammento di nuovo sulla parola “Israel”, sebbene trasposto.
La messa contiene uno dei tratti più importanti dell’intero repertorio, il tractus Deus, Deus meus, e il celebre graduale in V modo Christus factus est. Il tractus, che fa il paio con l’altro imponente tractus in secondo modo, Qui habitat, della prima Domenica di Quaresima contiene una delle più caratteristiche e pittoresche formule dell’intero repertorio, a volte presente nei tratti di secondo modo, sulla parola “Longe” all’inizio del primo versetto:
Il graduale Christus factus est è un celeberrimo brano del repertorio gregoriano. Essendo un graduale in V modo, esso è composto di “melodie centone”, ovvero di frammenti che si ritrovano in particolare nei graduali di V modo. Riguardo alla sua collocazione liturgica, Fulvio Rampi scrive:
Fino all’edizione del Graduale Romanum del 1974 (GR1974), al quale oggi facciamo riferimento, questo brano costituiva il graduale (il canto che segue la prima lettura) della “Missa in Coena Domini” del Giovedì Santo. Il suo utilizzo sconfinava però ampiamente nella liturgia dell’Ufficio Divino e interessava tutto il Triduo sacro, con particolari modalità esecutive: il Giovedì Santo veniva cantata solo la prima frase (“Cristus…usque ad mortem”); il Venerdì si aggiungeva la seconda frase, completando così la parte responsoriale (“mortem autem crucis”) e il Sabato veniva eseguito l’intero brano con tanto di versetto (“Propter quod….”). Il GR1974 – frutto dell’ultima riforma liturgica – ha assegnato a questo brano una nuova doppia collocazione: lo troviamo infatti nella messa della Domenica delle Palme e all’azione liturgica del Venerdì Santo. In entrambi i casi esso non è previsto dopo la prima lettura […], ma dopo la seconda lettura: non può sfuggire il fatto che, nella fattispecie, si tratta di una collocazione anomala, se non altro perché un graduale ha finito per sostituire la consueta presenza di un tractus prima della lettura evangelica. […].
Tralasciando l’analisi dei brani dei primi propri della settimana santa, poniamo subito l’accento su un’altra antifona, anch’essa estremamente nota, cantata durante la messa del giovedì Santo, altrimenti nota come Missa in Cœna Domini, ovvero l’antifona Ubi caritas. Si tratta di un’antifona in forma di inno, strofica, che riprende le antifone per la lavanda dei piedi seppur il testo su cui è composta, di autore ignoto, sia di sapore eucaristico, che la rende ideale per introdurre la liturgia eucaristica della messa. L’incipit del testo recita, secondo i più antichi manoscritti, Ubi caritas est vera, Deus ibi est, per quanto di recente le sia stata preferita la versione Ubi caritas et amor, Deus ibi est. Questo brano ha ispirato diverse versioni polifoniche, tra cui segnaliamo quella di Duruflè e quella di Giejlo, per il suo testo evocativo e per il suo andamento melodico, che incorpora probabilmente formule antiche.
Della Feria VI in Passione Domini segnaliamo l’adorazione della croce e gli Improperia. Gli Improperia, di origine dibattuta (anche se presumibilmente orientale) e dalla struttura melodico-modale misteriosa, sono così composti: tre brani su melodia simile (Popule Meus, Quia Eduxi e Quid Ultra), intervallati dal Trisagion e accompagnati da nove versetti. Nel complesso, dovrebbero rappresentare i rimproveri che Gesù rivolge dalla croce al popolo che lo ha portato alla crocifissione.
Il Popule Meus, forse uno dei brani più suggestivi del repertorio, ha testo tratto dal Libro di Michea con un’importante variazione che testimonia l’influenza della patristica sul trattamento testuale della composizione gregoriana. Infatti, il testo originale della Vulgata recita: “Popule meus, quid feci tibi? Aut qui molestus fui tibi?” Mentre il testo del canto sostituisce “quid molestus fui tibi?” con un più significativo “in quo contristavi te?”. C’è da notare che, nonostante le varie versioni della Vetus riportino variazioni del testo della Vulgata, in nessuna di esse vi è la versione utilizzata nel canto. Essa compare per la prima volta in un testo di Pietro Abelardo, citato probabilmente a memoria e quindi leggermente diverso dall’originale: si suppone che il canto sia stato composto dopo il commento di Abelardo sul Libro di Michea, e che il compositore abbia scelto questa versione del testo. Sottolineiamo che il Popule Meus, il Quia Eduxi e il Quid Ultra si concludono con un neuma interessante, presente pochissime volte nel manoscritto di Laon 239 e classificato da Cardine come pes stratus in versione metense. La struttura modale del canto è quantomai misteriosa: esso non è classificabile secondo i modi dell’Octoechos carolingio, e non contiene formule presenti in altri brani del repertorio.
Il Trisagion, tripartito come originariamente lo era il Kyrie, è basato su uno dei pochi testi greci sopravvissuti nella liturgia, contestualmente tradotto in latino: Agios o Theos, Sanctus Deus – Agios Ischyros, Sanctus fortis – Agios Athanatos, Sanctus Immortalis.
I nove versetti, che iniziano tutti con “Ego” e ricordano al popolo tutte le imprese che il Cristo ha compiuto, sono probabilmente delle aggiunte successive: essi consistono in lunghe recitazioni in mi, che si alternano alla ripetizione del Popule Meus. Il testo greco del Trisagion conferma l’origine probabilmente orientale degli Improperia.
Nella vigilia ci soffermiamo sull’Exsultet, anche noto come Preconium Pasquale, e sui Cantici della Veglia. L’Exsultet, una semplice eppur splendida composizione di cui esiste anche una versione beneventana, è associato alla benedizione del Cero pasquale. Ci è stato tramandato su rotoli spesso riccamente miniati, e tutt’oggi viene spesso cantato mentre è letto su un rotolo.
I Cantici della Veglia Pasquale erano, originariamente, sette tratti in ottavo modo associati a sette diverse letture. Non ne esistono versioni romano-antiche, fatto salvo per un canto contenuto nel manoscritto C52 conservato alla biblioteca Vallicelliana di Roma su testo di Vinea, uno dei sette cantici gregoriani, in forma di cantico e in stile romano-antico. Secondo Michel Huglo, esso potrebbe essere ciò che ci è stato tramandato della liturgia della Veglia di tradizione romano-antica. Ciascuno dei cantici contiene una formula, comunemente nota come formula pasquale, che viene anticipata spesso nel corso della Quaresima e che già suggerisce ciò che avverrà a Pasqua.
Diverso dagli altri sei è Sicut Cervus, che veniva cantato in processione e che ha ispirato a sua volta diverse composizioni polifoniche, la più nota tra le quali è sicuramente quella di Pierluigi G. Da Palestrina.
Alla fine dei sette cantici risuona, per la prima volta dopo l’intero periodo Quaresimale, un Alleluia: si tratta di un Alleluia in ottavo modo, con formula finale caratteristica ma con un’interessante variazione: mentre la nota formula conclusiva è su note sol si la si la la sol, qui troviamo un sol do la si la la sol: è l’unica istanza nella quale la formula raggiunge l’altezza del do.
Segue la liturgia battesimale: il battesimo era in effetti amministrato durante la liturgia Pasquale, e i battezzandi indossavano vesti bianche che avrebbero lasciato solo una settimana dopo, motivo per cui la prima domenica dopo Pasqua è anche nota con il nome “Dominica in Albis depositis”.
Cora Canini
Allieva della Scuola di Canto Gregoriano
La Settimana Santa verte sui principi dei dogmi del Cristianesimo. Fra le tematiche trattate si ha l’umiltà che deve essere la base per poter accedere al Regno dei Cieli e l’aridità spirituale che può essere curata solo tramite l’acqua e la luce del Divino che, tramite i suoi insegnamenti, ci fa crescere come una pianta.
L’umiliazione di Cristo durante la lavanda dei piedi deve essere un esempio per tutti, in quanto solo grazie ad essa si può arrivare alla gloria eterna; nelle antifone, oltre ai discorsi indiretti che diventano diretti, si ha una particolare attenzione sul ruolo di Gesù come Maestro, riportando valori più allargati su questa figura e in Si ego Dominus si ha addirittura un andamento melodico che culmina su “Magister” per poi finire al grave, come se fosse proprio Gesù a dare l’esempio ai suoi seguaci come mediatore. Come poi spiega a Simon Pietro, il lavare solo una parte del corpo è un gesto, e la parte non è casuale: sulla via della salvezza solo i piedi calpestano il peccato e se ne sporcano, mentre il resto è già stato pulito attraverso il battesimo. Questa messa, infatti, si ha dopo la Messa del Crisma, in cui vengono consacrati tutti gli oli santi, simbolo dello Spirito Santo. Anche Paolo nella lettera ai Filippesi pone una particolare attenzione all’umiliazione come unico modo per essere salvati e vede il sacrificio estremo come la gloria resa visibile. Nell’introito In nomine Domini si ha una spinta all’acuto proprio sul termine “flectatur” e come riporta Lc 14:11 “Chiunque s’innalza sarà abbassato e chi si abbassa sarà innalzato”; l’apice si ha invece su “Dominus”: bisogna seguire Lui e obbedire a Lui per essere beati. Viene enfatizzata anche la morte tramite la Croce, l’umiliazione finale, raggiungendo per la prima volta la finalis. L’aridità che affligge coloro che hanno perso, o stanno per perdere, la morale è presente già dalla feria seconda, in cui si riflette sul castigo divino che giungerà sui malvagi che vogliono avere una gloria terrena. La messa di questo giorno è strettamente legata a quella della quinta di quaresima che risolverà quest’aridità solo durante la “Madre di tutte le veglie”.
Paolo, nella lettera ai Galati, riprende questo concetto: si scontra coi predicatori che hanno convertito al giudaismo i Galati per farli scappare dalla persecuzione e, invece di mostrare loro la gloria, adora la Croce, simbolo di salvezza. Il testo di questa lettera è quello dell’introito Nos autem gloriari, ma la visione di San Paolo diventa una visione collettiva della comunità ecclesiastica; un’enfasi importante si ha sul “noi” che è l’incipit e la fine dell’antifona, ma anche la parte più acuta e grave. È importante anche il legame di questo introito della cena (e della feria terza) con il Resurrexi di Pasqua, in quanto quest’ultimo ha lo scopo di invitare alla meditazione sugli avvenimenti dalla Passione alla Resurrezione che sono strettamente legati, non solo nella formula del Credo, perché la Resurrezione non può avvenire senza la Croce e viceversa. Anche il tractus della stessa messa, Ab ortu solis, tratto dal Libro di Malachia, porta la tematica delle leggi morali invocando il Signore degli eserciti contro i sacerdoti che hanno perso la morale abbracciando la follia. Qui si profetizza anche la venuta del Messia (o di Giovanni Battista). Si contrappongono a Malachia i Proverbi che invitano il fedele alla superiorità della Sapienza che teme il Signore, con la consapevolezza di dover evitare il male. Quest’ultima parte viene esplicata in dieci parole, numero che indica il regno di Dio sul Caos e in 126 suoni, multiplo di sette, segno di stabilità e perfezione come la Sapienza, e 3, segno della Trinità, di perfezione e conoscenza. La melodia è la stessa del tractus della terza domenica di quaresima, Ad Te levavi oculos meos, dove il fedele riesce ad alzare lo sguardo verso Dio con l’anima leggera per la morale intatta. Nel versetto del Nos autem si ha un richiamo alla benedizione di Aronne: se da una parte abbiamo il Signore che benedice e custodisce facendo risplendere il Suo volto e concedendo la pace, dall’altra si ha il fedele che cerca questo volto per poter benedire tutto il suo popolo.
Si ha questa connessione alla luce molto importante che dal giovedì al sabato veniva ripresa anche dall’ufficio delle tenebre, caratterizzato dallo spegnimento di 15 candele, l’ultima posta dietro all’altare, e da un “terremoto”, simbolo della Sua morte, in totale oscurità. Il terremoto torna anche a Pasqua all’offertorio Terra tremuit, antifona che veniva utilizzata in questo ufficio, in cui anche la melodia dà un senso di instabilità causata dal terremoto. L’ufficio terminava prima della vigilia di Pasqua dove la luce si fa invece sempre maggiore durante il lucernario dove viene intonato l’Exultet che indica la vittoria della luce sulle tenebre.
Lo sguardo salvifico del Signore si ha anche sul graduale Oculi omnium, tratto da un salmo alfabetico, nonché l’ultimo di Davide. Esprime la provvidenza e la fiducia in Dio. Termina con l’apertura della Sua mano a tempo debito, sottolineata dal melisma su “opportuno” e “aperis”. La mano qui è opposta a quella dei malvagi dell’offertorio della feria terza, Custodi Domine, in cui si ha l’apice melodico su “manu” e un importante allargamento per poi lasciare scorrevole il “peccatoris” in quanto ormai scontato di chi sia la mano.
Altro simbolo importante in questa settimana è l’acqua in tutte le sue forme. Prima troviamo un’acqua melmosa, data dal male che attanaglia l’oratore del Salmo 68 del graduale Ne avertas, i nemici lo circondano e lo perseguitano senza lasciargli scampo; il finale è a valori più larghi, come se rimanesse intrappolato nel fango. Sempre nella stessa messa si ha un contrasto fra la prima e la seconda parte del communio Potum meum: la punizione da parte di Dio viene rappresentata da un uragano di lacrime che fa inaridire l’erba, mentre nella seconda si ha la stabilità di Dio che rende il salmista profeta della salvazione.
È evidente la differenza del carattere di Dio nel Vinea facta est in cui assume la figura del viticoltore che crea il mondo perfetto per far crescere la propria vigna (il suo popolo); dopo aver fatto tutto ciò che era in suo potere attende che essa maturi. Ma questo è dato solo dalla “libertà” dell’uva. Quest’ultima, resta acerba, non corrispondendo l’amore di Dio. Dopo questo rifiuto il viticoltore non cessa di amare la vigna, ma la lascia alle grinfie della natura, rendendola povera come l’erba del Potum meum.
Se da un lato si ha la dimostrazione della potenza distruttrice, dall’altro, su Attende cælum, si dimostra la potenza della parola di Dio con un climax da rugiada, a pioggerella, ad acquazzone che fa crescere l’erba, il suo popolo, grazie ai suoi insegnamenti.
Durante la processione al fonte battesimale della notte di Pasqua viene intonato il Sicut cervus in cui si ha la sintesi dell’aridità precedentemente espressa: la sete del credente ovviamente non è di acqua o beni materiali, ma di Dio e del suo amore. Colui che canta è un sacerdote ebreo che procede nella vallata del Giordano. Tutto il salmo oscilla fra l’agonia assoluta, vista nelle lacrime, e la speranza della sua anima di potersi ricongiungere a Dio. È durante questo pianto che si rende conto che per poterLo vedere non ha bisogno del suo tempio, ma gli basta un dialogo fatto con l’anima. L’ebreo è costantemente provocato dai suoi carcerieri, come si vede alla fine, che gli chiedono costantemente: “Dov’è il tuo Dio?”, ma nonostante tutto non perde la fede per abbracciare gli dèi dei vincitori.
Il discorso dell’acqua si esaurisce con l’antifona Asperges me, di origine gallicana, mentre il celebrante asperge l’acqua benedetta. L’acqua che sgorga è portatrice di salvezza che viene da Cristo, dal suo lato destro, come acqua battesimale. Però, oltre all’acqua, sgorga anche il sangue, simbolo che suggella il nuovo patto, come si vede nel communio Hoc corpus, dove la nuova chiesa nasce su quella vecchia, data anche dalla figura dell’agnello.
Il pane e il vino sono simboli fondamentali della liturgia. Quest’ultimo, come l’acqua, ha significati diversi nei giorni che anticipano la Pasqua. All’inizio viene visto come bevanda negativa, ciò che bevono gli uomini malvagi nel communio Adversum me, contrapposto all’aceto, bevanda che berrà pure Gesù in croce. Nell’offertorio Improperium, l’aceto, l’ultima cosa bevuta prima di morire, ha un andamento che tende ad elevarsi rispetto al resto con un ampio uso di levare e sursum; anche l’etimologia di aceto presuppone questo “vino acuto” che si contrappone alla stoltezza del vino. Inoltre si ha il g di guttur sull’ultima parola, come se venisse emesso il grido del Tractus Deus, Deus meus, già sentito anche nella Passione e nei vespri. A contrapporsi alla salita dell’offertorio c’è il communio Pater, si non potest in cui si ha la rassegnazione alla volontà scritta con anche un elevato uso di iusum mediocriter e il carattere dolce, che torna a Pasqua, a cui Cristo si rivolge al Padre con leniter.
Il pane invece deve essere un pane buono, non formato dal lievito malvagio che, seppur piccolo, è un principio capace di grandissime cose. Nel communio Pascha nostrum della liturgia battesimale e di Pasqua, il lievito da separare è lo scandalo che opera sulla chiesa in modo deleterio come il sale di Mt 5:13, quindi va tolto per essere una nuova pasta formata da una società santa. Questa separazione del lievito deriva dalla Pasqua ebraica. Nel communio si ha un movimento simile a quello di un setaccio sugli azzimi di sincerità e verità. Nell’alleluia di Pasqua, Pascha nostrum, si dà maggiore importanza ad “immolatus”, ossia il gesto che Cristo ha fatto per salvare l’umanità.
Altra parte rilevante della settimana è il contrasto fra il silenzio e la parola.
Dopo il Gloria della messa della cena, cantato mentre suonano le campane, queste ultime non si sentiranno più fino alla veglia pasquale. Il venerdì, giorno della morte, è aliturgico, come il sabato, e la Passione che veniva celebrata alle 15, ora della morte secondo i Vangeli, iniziava senza Introito, con i fedeli tutti inginocchiati e il celebrate disteso addirittura per terra. Il Passio viene fatto da tre cantori con tessiture molto diverse tra loro: Cristo solennizza tutto ciò che dice, la verità, cantando al grave; il Cronista si limita a raccontare gli avvenimenti con un registro medio; la Sinagoga ha una tessitura disumana, quasi irritante, dice solo cose sbagliate che non hanno niente di umano. Il testo torna anche negli Improperia in cui si intreccia a quello dell’Esodo.
Ecce lignum Crucis viene ripetuto tre volte, innalzandosi ogni volta di un semitono, tornando in ginocchio, pregando in silenzio ogni volta. Il venerdì si conclude senza comunione, in totale silenzio, senza benedizioni.
Il sabato inizia con lo Iubilate Deo dopo la prima lettura. Come dice Sant’Agostino: “Qui jubilat non verba dicit, sed sonus quidam laetitiae sine verbis” (Giubilare non è parlare, è pronunciare senza parole un grido di gioia). Tutti gli altri cantici invitano alla lode di Dio e alla morte dei nemici nella distruzione finale che cambierà l’ordine antico delle cose lasciando solo la fede, la speranza e la carità (come si era visto il giovedì con Maneant vobis). Si vede il Signore come una roccia che protegge il suo popolo dai nemici in Qui confundunt, come le vedette sui monti che circondano Gerusalemme; Sion diviene figura della Chiesa fondata, retta e incentrata su Cristo.
Dopo i sette cantici viene intonato il Gloria, tornando a sentire il suono delle campane.
La settimana sottolinea sempre l’importanza di non perdere la fede per lasciarsi trarre nel peccato cercando una gloria terrena oltre a quella ultraterrena. Senza il Sacrificio, simboleggiato dalla Croce, non c’è possibilità di Salvezza, simboleggiata dalla Resurrezione.