La quarantena da cui usciamo ha amplificato la dimensione virtuale dei nostri rapporti sociali e della nostra vita. E per fortuna che questi strumenti ci sono e hanno contribuito a ridurre l’ampiezza del bivio tra la rinuncia alla vita quotidiana di lavoro, di relazione e la rinuncia a contrastare con la prevenzione il diffondersi dell’epidemia.

Qualcosa resterà stabilmente e i nostri comportamenti rimarranno modificati per sempre: la pandemia si sta rivelando come uno di quegli episodi traumatici che fanno compiere un salto alla storia. Pressati dalla necessità, abbiamo dovuto superare remore psicologiche, pigrizie mentali, ostacoli ideologici, carenze culturali e tecniche. Per molti, fin qui rimasti al massimo alla mail e al messaggino sul cellulare, si è trattato di un cammino in terra incognita. Per altri, più esperti, semplicemente un ampliamento delle proprie abitudini. Per qualcuno, profeta fin qui poco ascoltato dei nuovi orizzonti tecnologici, l’occasione per esercitare il ruolo di guida e di apripista: anche di questo qualcosa resterà.

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Senza attendere la quarantena, da tempo siamo abituati ad ascoltare più musica registrata che dal vivo. Sappiamo fin dai tempi di Walter Benjamin che la riproducibilità tecnica modifica il nostro approccio all’opera d’arte. Senza entrare nel merito dell’estetica e limitandoci agli aspetti funzionali, da tempo l’ascolto della musica dal vivo è solo una delle possibilità: nemmeno la più praticata, forse la più nobile ma più nelle considerazioni di principio che nella pratica quotidiana: in fondo, è così rassicurante ascoltare qualcosa che sai non ti deluderà, perché già distillato nella sua qualità e garantito dagli imprevisti. Perdi l’emozione dell’hic et nunc, ma quanti interpreti sono in grado di garantirla e quanti invece di negartela con le incertezze tecniche che il prodotto discografico può eliminare? E poi, quanto è più comodo ascoltare un CD in casa propria, visionare Youtube, esplorare Spotify, invece che uscire di casa, viaggiare, pagare un biglietto, col rischio che la vicina di poltrona scarti caramelle per tutto il tempo…  Dopo la quarantena ci sarà mancata la vita di fuori con le sue imperfezioni o avremo scoperto che la sala da concerto ideale, al pari delle omologhe città rinascimentali, è deserta di ogni presenza umana?

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La quarantena pone due distanze fisiche da superare.

La prima è quella dei coristi tra loro: impossibilitati a trovarsi, a provare, a preparare i concerti. Qui si è sperimentato il lato migliore della tecnologia, pròtesi venuta in soccorso delle nostre mutilazioni. Grazie a essa, pur zoppicando, molti cori sono potuti andare avanti o almeno non perdersi del tutto. Nessuno ha, in questo momento, una mappa non diciamo completa, ma almeno sommaria della creatività attraverso la quale coristi e direttori hanno affrontato la situazione, dopo l’iniziale smarrimento. Chi su Skype, chi su Whatsapp, chi imparando a usare Google Meet, chi spiando le lezioni a distanza dei figli per carpire i segreti di Zoom… ciascuno ha trovato il suo strumento per comunicare con gli altri e ricostituire virtualmente la comunità coro. Pratiche fin qui saltuarie e quasi sprezzate, come la registrazione delle parti sulla quale il corista musicalmente illetterato potesse apprendere la parte, si sono arricchite delle possibilità offerte dall’unione all’immagine: e registrando un video, anziché un semplice audio, il direttore ha potuto aggiungere la mimica alla voce, con efficacia sicuramente maggiore. Qualcosa di tutto questo resterà e snellirà il lavoro di preparazione: tutto la propedeutica, dall’apprendimento della parte alle prove di sezione fino anche a un primo assemblaggio potrebbe essere validamente gestito in questo modo, dedicando le prove solo alla vera concertazione, con maggior soddisfazione di tutti e risoluzione di mille piccoli problemi, dalla sede agibile solo in certi momenti al corista che viene da lontano e non può fare tutta quella strada due o tre volte a settimana. Certo, tutti strumenti che possedevamo anche qualche mese fa, ma superare gli ostacoli posti dalla pandemia ci ha fatto fare quel salto prima non preso in considerazione.

La seconda distanza è quella dal pubblico. Quanti concerti saltati, in questi mesi: e quanti di questi concerti costituivano appuntamento fisso col proprio pubblico! Si ricorderanno di noi? Quando finirà la quarantena e torneremo alla normalità, non rischieremo di essere tanti reduci Ulisse che trovano la propria casa occupata da altri? Ecco allora riattivare i social fin qui trascurati. Si postano vecchi concerti, si prova ad assemblare video per dar vita a cori virtuali e i più tecnologicamente smaliziati riescono nell’impresa di avvicinarsi al modello di Whitacre, un po’ orwellianamente inquietante ma senz’altro efficace, coinvolgente.

Anche qui qualcosa potrà restare e arricchire le nostre pratiche: potremmo coinvolgere il nostro pubblico non solo nel concerto, ma anche nella sua fase preparatoria, introducendolo nelle prove, facendogli vivere questa parte del nostro lavoro che può emozionare anche gli altri, non solo noi. E potremmo pensare a delle introduzioni al concerto trasmettendo dalla nostra sede, la sera della prova generale, una presentazione dei brani con esemplificazioni dal vivo, riuscendo nel doppio risultato di avere spazio per l’approfondimento alleggerendo di parole il concerto.

Più difficile immaginare invece una dimensione concertistica che non sia dal vivo. La musica, come il teatro, è un messaggio che partendo dall’emittente del compositore arriva al destinatario attraverso un canale che non è una cosa (il libro, la tela…) ma una persona: l’interprete. E la musica che conosciamo è costruita per essere cosi realizzata, ascoltata, vissuta. Nell’abitudine ad ascoltare più musica registrata che dal vivo, rischiamo di stravolgere le gerarchie, sì che non sia la traccia registrata a surrogare la realtà dell’esecuzione viva, ma questa a essere imitazione di quella fissata in un supporto.

Non può essere questo il nostro futuro: modalità di ascolto e forme musicali si muovono di pari passo e nuove tipologie di fruizione richiederebbero strutture musicali diverse. E nella storia recente ci si è mossi in direzione opposta: si pensi solo al coro spazializzato, che esalta l’hic assieme al nunc dell’esperienza di ascolto.

Il coro è fenomeno sociale per eccellenza: buoni cori sono espressione di sani rapporti sociali. C’è da sperare che la quarantena, dopo qualche giorno di meritato riposo, di quiete assaporata e di benefico silenzio, abbia mostrato come abbiamo bisogno l’uno dell’altro e l’isolamento mortifichi la nostra umanità. Vogliamo, dobbiamo sperare che il futuro riporti alla consuetudine, maturata della consapevolezza che il microcosmo del coro esalta la qualità dei nostri rapporti e va posto come modello di una comunità umana unita da valori e obbiettivi condivisi.