In questi giorni di clausura, durante una delle mie rare passeggiate fino al supermercato rionale, ho incontrato, vicino a casa, l’emisfero sinistro del mio cervello. Mi ha guardato con un sorriso sardonico e mi ha rimproverato, dicendomi: ‘Ecco, hai sempre considerato i cori come un qualcosa di molto importante, di indispensabile nella tua vita. Ora a che servono?’ Turbato di questo incontro mi sono affrettato sulla via del ritorno, barricandomi in casa in un profondo strato di prostrazione e di dubbio. Aspettava il mio ritorno, quasi ansioso di controbattere, l’emisfero destro che si è mostrato subito più possibilista e speranzoso. Ne è nato un fitto dialogo che provo a riassumere in pochi pensieri. Il principe Miškin nell’Idiota di Dostoevskij affermava: La bellezza salverà il mondo.
Eppure, quella stessa frase, ancor oggi citata infinite volte, ripetuta nei più diversi contesti fino a farne quasi scordare il suo proprio, nel testo originale ha una rilevanza ambigua: è quasi un’evocazione lontana, ricordo di qualcosa di non ben definito. Apparentemente di poca importanza. Ogni volta che parliamo di bellezza le diamo un’interpretazione diversa. Mi piace definirla come la sintesi di un processo vitale che rivela la forza e la creatività della vita e degli uomini. Come si può ora pensare che l’arte, la musica, i cori siano relegati ad un inutile passatempo in un mondo che trema davanti alla minaccia di una piccola entità biologica parassitaria? Come possiamo renderci utili, noi che siamo gli artefici della musica corale, al progetto della ‘grande sfida’? Da cantori e direttori non verranno farmaci e vaccini, sicuramente non risorse finanziare per lenire l’economia in difficoltà. E allora? C’è una domanda che, di fronte alla bellezza della musica corale, sorge spontanea: ‘Che mondo sarebbe senza il canto?’ E ancora: ‘Che società sarebbe la nostra senza i tanti, tantissimi cori di amatori e professionisti che, con impegno e dedizione, si confrontano con il contrappunto di Palestrina, i corali di Bach o le ardite sonorità di Arvo Pärt?’ Molto probabilmente sarebbe un mondo ove risulterebbe più difficile percepire l’esistenza e la bellezza di quella sintesi indispensabile tra l’io ed il noi, tra talento individuale ed espressione dell’unità. La crisi che stiamo vivendo è un filtro che blocca chi non crede veramente nel proprio lavoro di artista. Le restrizioni sociali, l’impossibilità dell’incontro ci hanno spinto alla ricerca di nuove soluzioni che poi si vedranno fiorire con la ripresa, anzi, costituiranno esse stesse la ripresa. Vista così la pandemia è anche una grande opportunità, che nel nostro caso ha sicuramente contribuito a renderci ancora più liberi. Così come è già avvenuto nella pittura e nella scultura, anche per la forma artistica musicale le cose stanno cambiando. Forse non si arriverà alla virtualizzazione del canto, ma sicuramente il concerto, l’elemento che più soffre al momento, subirà un radicale stravolgimento del proprio ruolo. Ma la bellezza del canto, intesa come fattore emozionale, come cura per il corpo e la mente feriti dalla tragica situazione odierna, non ce la toglierà nessuno.
Cantava Francisco Guerrero, grande polifonista spagnolo: ‘ut tua vulnera sint remedium animae meae’; possiamo noi mutarlo in ‘le ferite e la morte di oggi, saranno il conforto (attraverso il canto) della mia anima’. Con buona pace del mio emisfero sinistro.
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