PARTE SECONDA
La musica corale profana
Chanson à boire (1922). Per coro maschile a quattro voci, suddivise in due parti da tenore e due da basso. E’ una composizione su un testo di un poeta anonimo del XVII secolo che parla del potere del vino di allontanare le preoccupazioni; ha il sapore di un inno bacchico che si apre con un augurio di lunga vita all’ostessa che porta il vino e si conclude con la promessa, poco attendibile, di non bere più: infatti poi il coro ricomincia a cantare da capo! E’ un coro allegro e vivace in cui non mancano risate ritmate, portamenti e versi anche un po’ spinti, causati dall’euforia del vino.
Petites Voix (1936), cinque lavori corali a cappella per tre voci bianche, su poesie di Madeleine Ley: La petite fille sage, Le chien perdu, En rentrant de l’école, Le petit garçon malade, Le hérisson.
Si tratta di cinque canzoni molto semplici per coro di bambini, eseguibili anche da un coro femminile a tre voci. Le prime due liriche sono molto dolci e lente poiché descrivono due situazioni altrettanto amabili: nella prima, una ragazzina ritorna dalla scuola e deve occuparsi della casa e anche del fratellino ammalato. Alla sera, per riaversi dalle fatiche giornaliere, le basta sedersi su una pietra per godere la vista delle stelle. La seconda è dedicata ad una cane abbandonato che guarda languidamente uno sconosciuto per ricevere quell’affetto che gli è stato negato. Nella terza canzone, invece, un ritmo molto animato sembra commentare e riprodurre il vociare dei bambini che ritornano da scuola; il ritmo si fa più lento e finisce in pianissimo quando i bambini sono attratti dall’immagine della luna tra i boschi o dai suoni dei versi del gufo e del pettirosso. Molto triste è, invece, Le petit garçon malade, una canzone che parla di un ragazzino ammalato che, sentendo i bambini che giocano per la strada, piange in silenzio. L’ultima canzone, molto allegra, racconta di un papà che ha trovato un piccolo riccio per la strada e l’ha portato a casa; il piccolo animale rimaneva arrotolato, per la paura ma, non appena tutti hanno lasciato la cucina ha mostrato la sua testina. Musicalmente semplice, presenta un finale molto suggestivo, tipico in Poulenc: un LA acuto dei soprani sembra voler esprimere l’esplosione di gioia dei bambini.
Sept Chansons (1936). Su poesie di Paul Éluard e Guillaume Apollinaire: La Blanche Neige (Apollinaire), À peine défigurée (Éluard), Par Une Nuit nouvelle (Éluard), Tous Les Droits (Éluard), Belle et Ressemblante (Éluard), Marie (Apollinaire), e Luire (Éluard).
Molto differenti per quanto riguarda lo spirito ma anche il tono, le Sept chansons formano un tutt’uno che termina con l’eclatante Luire. Naturalmente, le due composizioni su poesie di Apollinaire introducono nel ciclo vivacità e gaiezza; per contro, le cinque su poesie di Éluard (dalla raccolta La vie immédiate) oscillano fra la serietà e la gravità. Poulenc dimostra di sapersi muovere bene fra le diverse situazioni emozionali espresse da ogni chanson; è necessario un coro di almeno sessanta cantori affinché le Sept chansons possano rendere appieno la loro forza armonica ed il loro spirito.
Ne La Blanche neige, Poulenc cerca di tradurre in musica le immagini create da Apollinaire, immagini che fuggono attraverso la neve: le voci si rincorrono e, solo alla fine, quando anche le immagini sembrano essersi stabilizzate su una scena d’amore, si ritrovano in un accordo tonale.
À peine défigurée è una chanson tanto dolce quanto misteriosa che oscilla tra il modo minore e il modo maggiore: la poesia è un elogio alla tristezza. Par une nuit nouvelle è una chanson d’amore ma angosciosa, in re minore, percorsa da grida e armonie stridenti che lasciano spesso il tratto a dei silenzi. Il testo oscilla fra descrizioni positive di una donna amata ed altre più inquietanti; questa discontinuità di immagini è rinforzata dal variare del trattamento delle voci che, dal tenore solo, arrivano a dividersi in quindici parti.
Tous les droits simile alla precedente come carattere, è ugualmente organizzata sui contrasti. E’ una chanson d’amore in cui l’amata è associata a tutta una serie di immagini naturali. Belle et rassemblante è ancora una chanson d’amore dedicata ad un bel viso che, alla fine, viene assimilato “a tutti i volti dimenticati”. Marie, invece, come è caratteristico in Apollinaire, si fonda su un tono giocoso e su una serie di onomatopee ritmate, cantate con quinte parallele e giochi d’eco. La chanson è dedicata da un uomo alla sua donna, Marie, alle sue qualità e al desiderio del suo ritorno. Luire è la chanson che termina il ciclo e che, pertanto, ha un carattere vivace, reso ancora più eclatante da un alternarsi di assoli, frasi elaborate e armonie che sorprendono. La chanson si chiude su un’immagine positiva e piena di forza sottolineata, ancora una volta, dalla totalità del coro in un fortissimo.
Sécheresses (1937). Cantata per coro misto e grande orchestra su poesie di Edward James, poeta e collezionista di arte surreale: Les Sauterelles, Le Village abandonné, Le Faux Avenir e Le Squelette de la mer.
Può essere considerata, a tutti gli effetti, il primo lavoro prettamente corale di Poulenc con accompagnamento orchestrale; alla prima esecuzione, effettuata nel maggio del 1938 dai Chanteurs de Lyon, diretti da Paul Paray, vi furono dei commenti non troppo favorevoli, tanto che Poulenc dichiarò all’amico Auric di voler distruggere la partitura. Solo in un secondo momento capì l’importanza di questa sua creazione che, in un certo senso, segnava una prima tappa di quello che poi sarebbe diventato il suo stile personale nella scrittura corale.
Generalmente la critica ha attribuito lo scarso successo di Sécheresses alle poesie di James, troppo scarne: Poulenc è riuscito a trovare materia d’ispirazione in queste descrizioni di deserti che sembrano collocarsi fra la Grecia antica e i luoghi dell’Antico Testamento; il compositore cercò di rivestire, con la sua sensibilità naturale e musicale, la desolazione espressa dalle singole parole.
Les Sauterelles è colma di immagini che parlano di una natura ormai morta, di cui non restano che le rovine – anche di classica memoria – foderate di polvere, dove solo le cicale e le cavallette fanno da padrone. Il brano, costellato da immagini e armonie inquiete, sembra comunque raggiungere alla fine una certa tranquillità, supportata da dei piccoli interventi orchestrali, dolci e quasi trasognanti e da un coro melodicamente più disteso, a tratti a cappella.
Le village abandonné sembra essere un continuo della desolazione già descritta nella prima canzone: qui non ci sono solo rovine ma un intero villaggio morto, “senza fontane né abitanti”. Un passaggio dolcissimo del coro a cappella conduce il brano verso la conclusione, in un’atmosfera pacata.
Le Faux Avenir è, a differenza dei brani precedenti, un canto disperato di un amante che ha perduto il suo amore col quale aveva immaginato un futuro felice. La canzone parla quindi di una “sècheresse” differente, più spirituale che naturale. E’ organizzata attorno ad una frase che riprende il titolo della cantata “Je suis sans Vous, je suis la sécheresse” (sono senza di voi, sono la secchezza).
Le Squelette de la mer è una poesia di morte, che sembra descrivere una “sécheresse” al suo stadio estremo: lo scheletro del mare, ormai vuoto e privo di qualsiasi forma di vita, diventa metafora di una vita sempre attesa ma mai veramente vissuta. Il brano comincia con il coro che canta a cappella l’aridità in cui è immersa la natura. Ma tutto, secondo lo stile di Poulenc, è teso verso il momento di climax che sopraggiunge alla parole “écoutez-moi” (ascoltatemi), gridate come un’ultima preghiera alla terra arida prima di un cataclisma, cantate con un triplo “forte” su un accordo armonicamente molto instabile. Questo momento drammatico si concluderà con grido finale del coro, seguito da un accordo finale secco e fortissimo, come un fulmine mortale.
Figure humaine (1943). Cantata per doppio coro a cappella su poesie di Paul Éluard (dalla raccolta Poésie et Vérité 1942): De tous les printemps du monde (Bientôt, Presto), En chantant les servantes s’élancent (Le rôle des femmes), Aussi bas que le silence, Toi ma patiente, Riant du ciel et des planètes (Première marche – La voix d’un autre), Le jour m’étonne et la nuit me fait peur (Un loup), La ménace sous le ciel rouge (Un feu sans tache) e Liberté.
Nel 1943 il compositore era sempre più frustrato dagli eventi della guerra: l’irrequietezza dovuta a questa pesante situazione è tutta espressa nell’opera clandestina Figure humaine, scritta per essere edita ed eseguita dopo la guerra. L’idea di comporla gli venne dopo un pellegrinaggio a Rocamadour e l’intento fu quello di eseguirla nel giorno in cui la Francia sarebbe stata liberata. Il ciclo di poesie di Paul Éluard esprime tutto il dolore del poeta causato dalla tragicità degli eventi contemporanei: per reazione, egli scrive un inno alla libertà e alla speranza, ma il dolore e la sofferenza sono comunque presenti e percepiti. Poulenc lascia, volontariamente, l’ultimo posto alla poesia intitolata “Liberté”, una canzone che diventa l’emblema della Resistenza; fu conscio della difficoltà della composizione ma, nonostante ciò, si rifiutò di dotarla di un accompagnamento orchestrale, intendendo lasciare solo alla voce umana, lo “strumento” che più amava, il compito di esprimere la profondità di emozioni presenti nelle liriche. La novità di composizione risiede sull’organizzazione spaziale dei due cori che funzionano, prevalentemente, come due blocchi distinti, creando quell’effetto stereofonico di veneziana memoria.
De tous les printemps du monde è la prima canzone che viene aperta da una frase dei bassi ed ha un suo momento molto suggestivo in corrispondenza delle pesanti parole “le plus laid” (il più laido, aggettivo riferito a quella primavera del 1943). La canzone, fra le immagini cupe riferibili alla guerra, presenta anche qualche momento speranza che si concretizza alla fine con la dichiarazione della certezza che “le facce buone trionferanno su quelle cattive”. En chantant les servantes s’élancent, la seconda canzone, comincia con un ritmo molto sostenuto ma si conclude con una sezione finale lenta e mormorata come una litania; il testo parla del ruolo delle donne che sembrano avere il compito di cancellare le tracce della morte per riportare il mondo alla luce. Aussi bas que le silence è un brano molto lento che, nella sua perfetta verticalità fra le parti, fa emergere la tristezza del testo, intriso di un sentimento di calma mortale. Le due prime terzine della poesia sono affidate ciascuna a un coro e poi all’altro, in modo da riuscire a rendere al massimo la ricchezza dell’armonia. L’ultima terzina è sottolineata da un grande crescendo, reso da una marcia armonica eseguita dai due cori; una lenta discesa cromatica del secondo coro sottolinea l’oscurità che, in quel momento, sovrasta gli uomini.
Toi ma patiente è introdotta dal primo coro in modo calmo e lento. I versi successivi a poco a poco rompono la tranquillità iniziale e, con una progressiva destabilizzazione della tonalità, convergono nel canto, quasi gridato, dell’ultimo verso, che esprime una chiara preghiera alla “Pazienza”.
Riant du ciel et des planètes è invece un pezzo che sembra un elogio alla follia, la cui tesi, di fondo, è che i pazzi sono gli unici ad essere considerati mentre i saggi finiscono col consumarsi. E’ cantato, alternativamente, dall’uno o dall’altro coro, seguendo dei ritmi saltellanti che mettono in evidenza l’ironia del testo. Le due compagini vocali si ritrovano a cantare insieme l’ultimo verso che dichiara, a piena voce, il senso del testo: il tempo giudica solo i pazzi e, invece, gli uomini saggi sono “ridicules” (ridicoli), un chiaro riferimento ai fatti della storia contemporanea.
Le jour m’étonne et la nuit me fait peur è una lirica intrisa di un sentimento quasi sarcastico ed è ancora una canzone che fa riferimento ad una situazione di sofferenza in cui vita e morte sembrano, inesorabilmente e inevitabilmente, incrociarsi.
La ménace sous le ciel rouge è l’unica poesia del ciclo che evoca la guerra in maniera esplicita, come follia dell’uomo sull’uomo. I due cori, dopo una sezione in cui le voci cantano alternativamente, fanno corpo e si lanciano in armonie dolorose che introducono immagini molto tristi riferite al momento storico ma il brano termina, non a caso, su un accordo maggiore, con un canto unanime di speranza.
Liberté è una canzone molto lunga che comprende ventuno quartine, tutte costruite sul modello della prima diventata, nel tempo, molto celebre: “Sui miei quaderni di scuola/ sul mio banco e sugli alberi/ sulla sabbia e sulla neve/ scrivo il tuo nome”. La canzone assume, pertanto, l’aspetto di una litania in cui il motivo iniziale, sia musicale che testuale, funge da filo conduttore.
Mano a mano che la canzone avanza, il tempo però tende ad incalzare, diventando quasi un canto di vittoria. I cori si riuniscono sull’ultima strofa, in un “triple forte, éclatant, très large”e preparano la cadenza finale nella quale viene declamata, con tutta la forza possibile, la parola “Liberté”.
Un soir de neige (1944). Cantata per sei voci miste o coro a cappella. Poesie di Paul Éluard: Des Grandes Cuilliers de neige (Le feu), La Bonne Neige (Un loup,), Bois meurtri (Dernier instants,)e La Nuit le Froid la Solitude (Du Dehors).
Des Grandes Cuilliers de neige è una canzone dal ritmo moderato che inizia con un tema sereno non supportato da un’immagine altrettanto positiva: ancora una volta, infatti, il poeta mette l’accento sulla solitudine dell’uomo, i cui piedi giacciono nella fredda neve. La Bonne Neige è un movimento moderato ma pieno di contrasti musicali che sottolineano le immagini contraddittorie del testo: i mille visi della morte contro il bianco della neve. Bois meurtri é una canzone triste che parla solo di speranze perdute e morte; anche la vocalità è tetra.
La Nuit le Froid la Solitude, l’ultima canzone del ciclo, è caratterizzata da una musica ostinata e ripetitiva, cantata con forza dal coro. Poulenc riesce a giocare molto bene sugli effetti, opponendo abilmente le voci in senso spaziale.
Huit chansons françaises (1945). Otto Canzoni popolari per coro misto e coro maschile a cappella, riviste da Francis Poulenc: Margoton va-t’a l’iau, La belle se siet au pied de la tour, Pilons l’orge, Clic, clac, dansez sabots (per coro maschile), C’est la petit’ fill’ du prince (1946), La belle si nous étions (per coro maschile, 1946), Ah! Mon bon laboureur, Les tisserands (1946).
L’inventiva di Poulenc riesce a ripresentare queste antiche melodie francesi con una freschezza tutta nuova, che lascia continuamente trasparire lo stile vocale del compositore. Apprezzabili e divertenti sono, per esempio, le onomatopee in Clic, clac, dansez sabots, La belle si nous étions e Les tisserands; sono invece interessanti le terze parallele a bocca chiusa de La belle se siet au pied de la tour, una scrittura che riempie il brano del mistero della vicenda narrata dal testo. L’opposizione delle voci è invece impiegata in C’est la petit’ fill’ du prince e Ah! Mon bon laboureau, una scelta spaziale che mette bene in evidenza le alternanze fra le voci. Naturalmente Poulenc volle rifarsi allo stile compositivo del Rinascimento francese e, forse, proprio in questa scelta di voler creare un connubio di stili differenti e distanti nel tempo sta il fascino di queste brevi composizioni.
Per ulteriori approfondimenti: Stefania Franceschini, Francis Poulenc. Una biografia, Zecchini, Varese 2014.
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