ALTERAZIONI SCRITTE ED IMPLICITE

Fin dall’inizio dell’XI secolo i musicisti europei hanno avuto a loro disposizione tutto ciò che era necessario per segnare l’altezza delle note senza alcuna ambiguità. Nonostante ciò, i compositori di polifonia vocale sino alla fine del Rinascimento, ed anche oltre, non pensavano che avrebbero dovuto annotare ogni alterazione richiesta. Sapevano che alcune alterazioni potevano essere lasciate fuori dalla notazione, dal momento che i cantanti le avrebbero rese appropriate in ogni caso. Sappiamo dell’esistenza di questa pratica dalle rare ma esplicite dichiarazioni dei teorici del tempo, come ad esempio quell’autore che verso la fine del XIV secolo affermò che ‘in generale, non è necessario annotare [le alterazioni]’. Apprendiamo inoltre che, sebbene non ci fosse stato un accordo che prevedesse esattamente cosa annotare, la maggior parte dei musicisti scrisse alcune alterazioni, ma, al contempo, ne lasciò altre fuori. C’era una tendenza, infatti, a non trascrivere in particolare quelle alterazioni necessarie per evitare i tritoni melodici e quelle tipiche delle progressioni cadenzali. Dal primi anni del XVI secolo in poi i compositori hanno comunque sostenuto, con sempre maggiore frequenza, che le alterazioni dovevano essere sempre scritte.

I teorici ci spiegano comunque perché alcune alterazioni sono state annotate mentre altre no. Poiché molte alterazioni erano implicite, come questione di convenzione nel contesto musicale, i compositori potevano contare sull’abilità dei cantanti per eseguirle correttamente, indipendentemente dal fatto che fossero scritte o meno. Lasciarle fuori dalla notazione non era necessario ma nemmeno proibito. Poiché non in tutti i contesti serviva indicare le alterazioni con la stessa medesima chiarezza, si poteva decidere di indicarne alcune anche se, in senso stretto, sarebbero state ridondanti. (Nei Choirbook o nei Partbook si trovano più facilmente le alterazioni  usate nel contesto melodico e nelle formule cadenzali mentre è più difficile trovare quelle indicanti una relazione verticale.)

E’ evidente, quindi, che la realizzazione delle inflessioni accidentali implicite apparteneva al contesto della prassi esecutiva. Ma se vogliamo evitare equivoci su quello che fecero i musicisti medievali e rinascimentali, allora abbiamo bisogno di comprendere chiaramente se le alterazioni implicite appartenevano alla sfera del testo musicale (che per ogni dato brano e per tutte le esecuzioni doveva rimanere invariato se l’opera voleva conservare la sua identità), o al campo esecutivo (che poteva variare in ogni singola esecuzione senza mettere in pericolo l’identità del lavoro). L’idea che uno degli aspetti di un’opera poteva essere una questione di prassi esecutiva non tanto appartenente a quello che prima ho definito dominio esecutivo, ma piuttosto al dominio del testo musicale può apparire bizzarro solo in merito al presupposto anacronistico che la funzione della notazione musicale è di fissare un ‘testo musicale ideale’  indipendentemente dalla sua specifica realizzazione, un atteggiamento moderno che non è diventato comune sino alla fine del XVIII secolo. Per i musicisti precedenti la funzione della notazione era di fornire istruzioni  adeguate per gli esecutori. Questo spiega il loro atteggiamento pragmatico su ciò che ‘l’implicito poteva, ma non obbligatoriamente doveva, essere scritto’. Così la pratica del sottintendere, piuttosto che dello specificare, alcune alterazioni non significa necessariamente che queste non potevano appartenere al testo musicale.

In realtà, sembra che il confine tra il testo musicale e l’esecuzione si trovi nell’area delle alterazioni implicite. Una volta che abbiamo capito le convenzioni che disciplinavano il loro uso, diventerà chiaro che molte alterazioni appartenevano al testo musicale invariabile, poiché i contesti che le richiedevano potevano essere realizzati in un solo modo. Ma si potevano trovare anche convenzioni che permettevano ai cantanti, in determinate situazioni, di scegliere tra diverse soluzioni disponibili. In alcuni contesti i cantanti potevano legittimamente esitare se alterare o meno, in altri non vi era alcun dubbio che l’alterazione era necessaria, ma la scelta di questa era comunque lasciata aperta. Vi sono prove, inoltre, che i cantanti, occasionalmente, erano in disaccordo su come realizzare il testo. Di conseguenza, alcune alterazioni implicite devono essere intese come non appartenenti al testo invariabile, ma alla variabilità della sua realizzazione.

Quindi, anche se in alcuni contesti, gli esecutori possono aver avuto l’opportunità di scegliere tra diverse soluzioni accettabili, per la maggior parte dei casi dobbiamo pensare al problema delle alterazioni implicite in termini di testo musicale destinato ad essere realizzato correttamente da cantanti che leggono notazioni più o meno abbreviate. Questo modo di vedere il problema ci permetterà di evitare la pista falsa presa, a mio parere, da quegli studiosi che hanno sostenuto che, poiché le alterazioni implicite erano una questione di prassi esecutiva “è inutile lottare per una versione autentica” e che è anche improprio includere le alterazioni nelle moderne edizioni critiche. Una volta che ci si rende conto che molte alterazioni implicite appartenevano alla sfera del testo musicale, e che, a differenza dell’atteggiamento dei musicisti del Rinascimento, la visione moderna della notazione richiede che il testo integrale sia scritto, diventa chiaro che la ricerca per la realizzazione corretta (o, in alcuni casi, la gamma delle realizzazioni accettabili) delle alterazioni implicite è responsabilità del direttore e che i risultati di questa ricerca dovrebbero essere illustrati in una edizione critica.