Tema importante e delicato quello dell’actuosa participatio, del quale tenterò di dire qualcosa non tanto e solo a livello di principi e di documenti, quanto a livello pratico ed esperienziale. Sono un sacerdote e quotidianamente celebro la Liturgia delle Ore e la Santa Messa. Sono anche addetto ai lavori in fatto di canto e musica per la liturgia: questo già sin da ragazzo e maggiormente ora, dopo aver studiato presso il Pontificio Istituto di Musica Sacra in Roma. Sono anche viceparroco da un paio d’anni, e dunque come celebrante ho modo di trovarmi frequentemente e direttamente o di fronte e insieme al coro, o al popolo o ad entrambi. Se già negli anni della mia permanenza nella Basilica di Santa Maria degli Angeli in Assisi mi ero fatto un’idea del concetto di partecipazione attiva, nel nostro caso riferito al canto sacro, l’esperienza di questi anni immediatamente successivi all’ordinazione sacerdotale mi ha confermato che il ruolo del Coro e del cantore sono certamente importanti, ma direi che quello del sacerdote celebrante, se è in grado di cantare, è davvero determinante nel coinvolgere l’assemblea a prender parte attiva al canto nella Liturgia. Per dirla con un’immagine semplice e alla portata di tutti: il gregge va dove lo conduce il pastore.
Anzitutto credo che vi sia ancora bisogno di sgomberare il campo o il concetto della actuosa participatio da un terribile equivoco, che inevitabilmente conduce a derive pericolose: quello che tutti debbano necessariamente fare qualcosa. L’actuosa participatio è anzitutto interna: occorre come prima cosa esserci fisicamente e al contempo avere quella disposizione o atteggiamento interiore per cui mente, cuore e sensi si conformano alle parole che si pronunziano o si ascoltano[1].
Capita infatti, ad esempio, che gli zelanti di turno (del concetto di partecipazione attiva), rimproverino, e anche malamente, il Coro o il Cantore o lo stesso Celebrante perché nel giorno di Pasqua si è cantata la sequenza Victimae Paschali laudes escludendo (apparentemente) la massa e con l’ulteriore danno, a dir di costoro, che nessuno avrebbe capito nulla dell’antica e nobile Sequenza in lingua latina, nonostante l’aver fornito melodia e testo tradotto a fronte, e che dunque sarebbe stato assai più fruttuoso recitarla tutti insieme, in italiano. Si verifica poi che, interrogate le stesse persone circa il tema del Vangelo, o del Prefazio o delle preghiere eucologiche proclamate in lingua italiana alla medesima Messa, non ti sappiano balbettare alcunché, quando al termine delle medesime -e dunque senza granché comprendere- siano partite in automatico le risposte: Lode a te o Cristo, Santo santo santo…, Amen! La pia illusione della partecipazione attiva!
È ovvio poi che questa dovrà necessariamente esternarsi e manifestare quella partecipazione che, partendo dall’interno, coinvolge i gesti e l’atteggiamento del corpo, e suscita le acclamazioni, le risposte e quindi il canto[1].
L’esperienza personale cui sopra ho accennato e della quale vorrei trattare, incarna direi perfettamente quanto mirabilmente enuncia la già citata Istruzione Musicam Sacram ove si esplicitano i dettami del Concilio Vaticano II in materia, ed espressi nel capitolo VI della Costituzione Conciliare Sacrosanctum Conciulium.
Forse pochi ancora sanno, e tra essi certamente numerosi confratelli nel sacerdozio, che in fatto di partecipazione attiva al canto si distinguono tre gradi, oserei dire con intensità crescente: I grado: i recitativi del Celebrante, (compresi: Sanctus e Pater noster); II grado: i canti dell’Ordinarium Missae (Kyrie, Gloria, Credo, Agnus Dei e Orazione dei fedeli); III grado: i canti del Proprium Missae (Ingresso, Offertorio, Comunione, Salmo interlezionale, Alleluia, canto delle letture).
Essi vanno così ordinati: il primo: può essere usato anche da solo; il secondo e il terzo, integralmente o parzialmente, solo insieme al primo. Tutto ciò onde condurre i fedeli alla partecipazione piena al canto[2].
Credo che a questo punto debbano necessariamente cadere le barriere dagli occhi, e riconoscere che nella maggior parte dei casi si pensa e si opera esattamente per moto contrario, ossia cercando e curando l’actuosa participatio al canto sacro a partire da quello che è l’ultimo grado, per passare talvolta (ma raramente) per il secondo, senza peraltro quasi mai pensare al primo. Non ci pensano i direttori di coro, meno ancora ci pensano i preti che ne sono protagonisti, vuoi per non aver avuto un’idonea formazione in Seminario[3], vuoi adducendo la scusa dell’essere stonati, e forse in gran parte – chiedo venia! – per pigrizia e per accorciare i tempi, salvo poi violentare da una parte il Coro o gli addetti al canto con il: “fate cantare il popolo”, oppure quest’ultimo: “Forza, coraggio, cantate”!
E invece, da prete che canta e che vuole cantare non per ostentare alcunché, ma per dare, almeno talvolta, alla Parola Sacra e Liturgica la giusta collocazione a quel livello superiore rispetto al linguaggio comune parlato, che solo l’arte musicale riesce ad ottenere. Sperimento così di continuo come la partecipazione al canto, specie assembleare, passi e si realizzi anzitutto nel canto delle parti che spettano al celebrante, nel I grado appunto.
Sia che si celebri in lingua latina sia in lingua italiana, – parlo del Novus Ordo, ove mi sembra che gli interventi cantati del Celebrante siano in numero nettamente superiore al Vetus Ordo (pur essendo il sottoscritto un grande simpatizzante della Messa in rito romano antico), – è possibile, almeno nelle domeniche e nelle feste, solennizzare in tutto o almeno in qualche parte con i cosidetti recitativi del Celebrante. Le melodie sono contenute: per la lingua latina nel Missale Romanum, o nell’Ordo Cantus Missae edito da Solesmes, per la lingua Italiana in fondo al Messale Romano oppure in un volume a parte contenente le sole melodie[1].
Si possono scegliere due o tre melodie: le due gregoriane di do o di re sia per il latino che per l’italiano, oppure, soltanto per l’Italiano, la nuova melodia. Personalmente preferisco le due melodie gregoriane per nobiltà, essenzialità, e per quel mirabile connubio testo-melodia, che a onor del vero non sempre ottiene la melodia nuova. E anche per ciò che concerne le risposte del popolo: mentre esse sgorgano quasi spontanee dalle labbra dei fedeli nel primo caso, nel secondo risultano alquanto stentoree come se, nonostante il gregoriano sia stato bandito ormai da cinquant’anni da casa sua, il popolo lo avesse quasi insito nel DNA.
È felicemente sorprendente rendersi conto di come, non appena io canti le parti che mi spettano, l’assemblea d’improvviso si svegli, tenda le orecchie e levi il capo e lo sguardo verso di me; non tanto verso di me ma verso l’altare o l’ambone: mi viene da dire dunque che il canto del celebrante è un canto che orienta: orienta la preghiera, orienta il cuore e i sentimenti, orienta i sensi, la vista, l’udito. Lo stupore si fa ancora più grande poi quando mi rendo conto che il mio canto provoca immediatamente la risposta dei fedeli, nelle acclamazioni, nei dialoghi… e questo molto di più – almeno nella mia esperienza- che non nella semplice proclamazione.
Talvolta certamente molto dipende dalla composizione dell’assemblea, ma al presente non mi è mai capitato di dovermi rispondere da solo al canto dei recitativi, anzi, ripeto, nel caso del canto la risposta avviene più immediata oltre che, evidentemente, più sonora e quindi incisiva. Noto che magari alcuni del popolo possono non cantare qualche brano di repertorio pur popolare, ma quasi tutti invece si uniscono alle risposte al celebrante: anche gli stonati, anche all’ottava inferiore.
“Fate cantare la gente”: il ritornello comune che ci tocca sentire a ogni pie’ sospinto! Ebbene se e quando io, sacerdote, canto le parti che dovrei cantare – il primo grado! -, il popolo ha la possibilità di intervenire: al segno della croce iniziale, al saluto, all’Amen delle preghiere di colletta, superoblata e postcommunio, alle acclamazioni al Vangelo, ai saluti del Prefazio, al Sanctus, al Mistero della Fede, all’Amen della grande dossologia, al Pater noster, all’Embolismo, alla Benedizione e congedo.
Noto anche che quando canto il Prefazio e l’Istituzione dell’Eucaristia nella Prece Eucaristica (talvolta canto la Prece per intero!) il popolo assume un atteggiamento più attento e devoto e cala più spontaneamente anche quel sacro silenzio tanto necessario al rito e tanto caro ai documenti Conciliari.
Certamente non sempre si potrà o dovrà cantar la Messa per intero: in questo il Novus Ordo non da vincoli particolari. Si potrà dunque con criterio scegliere, a seconda del grado della festa, cosa cantare e cosa no. Talvolta ad esempio mi trovo a cantare le sole orazioni con il Prefazio, altre volte le orazioni e l’Istituzione dell’Eucaristia, altre volte la benedizione e il Pater assieme alle tre orazioni: in questo mi sembra di poter asserire che abbiamo una grande libertà. Di certo, quando decido di cantare qualcuna delle parti che mi spettano, non manca mai la grande dossologia Per ipsum / Per Cristo..: da qui infatti sgorga l’Amen più solenne e importante di tutta la Celebrazione.
Se noi preti cantassimo tutto o in parte quanto è a noi proprio, credo che non avremmo più bisogno di tediare le nostre corali, organisti, maestri di coro, e nemmeno il nostro povero popolo: avremmo spontaneamente quella partecipazione esterna che -confessiamolo – andiamo a cercare laddove è meno spontanea da ottenere. Non sempre infatti possiamo chiedere a una qualsiasi assemblea di intervenire per intero nel primo e nel secondo grado: si tratterebbe davvero da una parte di violentare l’assemblea ma anche di snaturare e sminuire la Liturgia: come pretendere che l’assemblea possa cantare sempre e tutto il vasto repertorio dell’anno liturgico? Dovremmo forse appiattire e livellare il tutto più di quanto già questo non sia avvenuto? O forse il ruolo delle Corali può e deve essere meglio compreso alla luce dei documenti Magistrali? Sono forse degli alieni i membri della Corale o per caso essi stessi assemblea, una parte certamente specializzata dell’assemblea che può e deve compiere il suo ministero particolare? Forse lo stesso prete è sceso direttamente dal cielo o è uno scelto da Dio di tra il popolo, e dunque del popolo, per celebrare e dispensare i Sacramenti? Si chiedono forse all’assemblea i medesimi gesti e parole del sacerdote per poter dire che essa ha partecipato attivamente alla Celebrazione?
«Tra i fedeli esercita un proprio ufficio liturgico la schola cantorum o coro, il cui compito è quello di eseguire a dovere le parti che le sono proprie, secondo i vari generi di canto, e promuovere la partecipazione attiva dei fedeli nel canto. Quello che si dice della schola cantorum, con gli opportuni adattamenti, vale anche per gli altri musicisti, specialmente per l’organista»[1].
Circa le parti che sono proprie alla Schola e all’Assemblea, (e anche al Celebrante), non mi dilungo oltre, ma consiglio vivamente una lettura attenta e sapienziale dei documenti citati: Musicam Sacram e Istruzione Generale del Messale Romano. Ma poi occorre passare ai fatti, come li ha pensati e codificati la Chiesa, attraverso i secoli e la tradizione.
Di recente si è celebrato il cinquantesimo anniversario dell’Istruzione Musicam Sacram con un Congresso Internazionale. Non vi ho partecipato – lo confesso – per un certo spirito di reazione! Non metto in discussione la bontà e l’importanza dell’evento ma resto convinto che dopo ormai cinquant’anni di chiacchiere, per quanto studio e riflessione siano sempre importanti, sia il tempo di mostrare fatti concreti secondo il più genuino spirito conciliare ampiamente espresso nei documenti e negli Ordinamenti Generali ai libri liturgici.
Da parte mia, felice per ciò che sperimento e desideroso che la mia esperienza diventi quella di molti, mi auguro che la Chiesa, nei suoi pastori, sia fedele ai suoi principi di curare la formazione dei sacerdoti al canto sacro; e che questi, assieme ai musicisti, ai maestri di Coro, ai Cantori altrettanto ben formati, sappiano armonizzare sempre meglio doni e carismi per la lode di Dio, il decoro della Liturgia e il servizio al popolo cristiano per aiutarlo ad esprimere sempre più quella actuosa participatio ai sacri misteri che si realizza anche nel prender parte al canto sacro.
[1] Cf. Istruzione del «Consilium»
e della Sacra Congregazione Dei Riti Musicam Sacram, del 5 marzo 1967, n. 15 a.
[2] Cf. Ibidem, n. 15 b.
[3] Cf. Ibidem, nn. 28-29.
[4] Con dolore e con verità, bisogna ammettere che nei Seminari italiani l’insegnamento del canto gregoriano e corale è disatteso e visto come ambito ozioso quando non salottiero; nella migliore delle ipotesi le prove di canto vengono affidate alla più o meno buona volontà dei medesimi seminaristi, dai quali si pretende un’autoformazione senza alcuna formazione.
[5] Melodie per il rito della messa e altri riti. Sussidio musicale per il canto dei ministri in dialogo con l’assemblea, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, LEV, Roma, 1993.
[6] Ordinamento Generale del Messale Romano, n. 103.
Didascalie delle Immagini:
Padre Matteo Ferraldeschi mentre dirige il Coro Laudesi Umbri e la Corale Porziuncola.
Card. Robert Sarah, autore di La forza del Silenzio.
Don Nicola Bux, autore di Come andare a Messa e non perdere la Fede.
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