Si presume che quest’anno si canterà di più Monteverdi. Lo scorso 9 maggio si è festeggiato il suo 450° compleanno e non ci sarebbe occasione migliore per onorarlo, dal piccolo concerto in provincia al festival internazionale. Quanto oggi sia rilevante la figura di Monteverdi fra le associazioni corali di tutto il mondo è fuori discussione: basta solo provare a contare quante di queste realtà sono al ui intitolate.
Molte sono le ragioni per cui i cori di oggi studiano la sua musica. Anzitutto, come ‘monumento’ della nostra storia musicale, ed è difficile individuare l’esatto istante in cui la sua figura è divenuta archetipo di stile e di costruzione formale: infatti, è stato citato, imitato, contraffatto quando era ancora in vita. Appena un secolo dopo il padre di tutti gli storiografi, l’arcidotto Padre Martini, selezionava campioni della scrittura monteverdiana nel corredare di autorevoli esempi il suo metodo di contrappunto.[1] Ma il vero e proprio monumento sarà eretto ai tempi della cosiddetta “musica al quadrato”, quando il ripescare vecchie carte di musica dal passato era molto più di un semplice sport archeologico, dato che tale attitudine riuscì a influenzare in modo determinante le carriere di tanti compositori; tra tutti, Gian Francesco Malipiero,[2] che venne incaricato nel 1926 di curare l’opera omnia monteverdiana e se ne invaghì a tal punto da cimentarsi nell’orchestrazione di alcuni madrigali, fino a creare nuove pagine con la medesima ispirazione formale (e contagiando con questo gentile morbo vari colleghi e discepoli). Ancora oggi, sebbene per una strana sorta di snobismo in troppi non hanno il coraggio di ammetterlo, assai sovente quei tozzi volumi dalla copertina color lambrusco lasciano gli scaffali delle biblioteche per servire ai direttori più intransigenti, ai continuisti più ortodossi, al cantore più esperto nella prassi informata: un fenomeno che di certo non si fermerà in questo anno di festa, nonostante le auguste edizioni critiche confezionate nell’arco temporale tra Malipiero e noi.
Non dimentichiamo poi che il componimento di Monteverdi è un ottimo esercizio di stile e in quanto tale è contenuto in qualche vecchia (ma sempre efficace) antologia corale: il madrigale e il mottetto insegnano a pronunciare, a respirare, a intonare come pochi riescono a fare; ecco quindi che diventa il pallino di un direttore o di qualche corista entusiasta, un po’ per i motivi che abbiamo già enunciato, un po’ perché è difficile e fa crescere. Si indica come brano d’obbligo a un concorso. Si registra per l’ennesima volta su CD.
Ma il maestro cremonese, la cui produzione è totalmente consacrata alle voci, non pensava certo al coro nell’accezione a cui oggi siamo più abituati. Ai suoi tempi, nel suo periodo di attività un compositore della sua categoria doveva avere dimestichezza con una multiforme casistica dei gruppi vocali, variabili per luogo e situazione e soprattutto a seconda della funzione che gli si attribuiva. Egli ebbe la fortuna di lavorare in contingenze in cui la macchina a disposizione era efficiente, alquanto versatile e senz’altro di lusso; accanto a queste c’era sempre e comunque il coro più astratto, quello ideale: trasmesso dall’eredità dei maestri come prototipo assoluto di scrittura e poi immortalato su un foglio di carta dagli attrezzi del tipografo.
Della produzione monteverdiana oggi conosciuta, il madrigale è entrato nel repertorio corale suo malgrado, ma a beneficio di una certa fruizione didattica e storiografica cui abbiamo già accennato. Perciò non è del tutto legittimo trattarne in queste righe, ma che un prodotto concepito “per pochi intimi” si sia potuto estendere a una compagnia assai più nutrita sarebbe senz’altro un fatto degno di essere osservato nel suo percorso storico ed estetico. Non tutti i brani di questa forma si prestano a un simile uso, si noterà infatti che solitamente la scelta cade su una limitata casistica.
Riproporre oggi un’immagine così circostanziata della produzione madrigalistica è però un esercizio di differenti valori, non soltanto legati alla rappresentazione di un contesto che, come quello mantovano, si avvaleva delle maestranze più acclamate del tempo. Il recupero di quel suono che origine di ogni parola ci permette l’accesso a un gioco in cui molti sono i percorsi possibili e in cui ognuno di noi può soffermarsi a osservare la pianificazione strutturale delle voci, la resa mimetica di ogni affetto, o ancora confrontare le scelte dei diversi musici che hanno adottato le stesse linee. O semplicemente abbandonarsi a una ricezione incondizionata, dettata dalla semplice reazione emotiva.
Non si distaccano da questa concezione formale gli interventi corali dell’Orfeo, che anche quando vi prevale l’andatura
omoritmica sono autentici «calchi madrigaleschi».[3] Questi, sotto il peso del progetto narrativo si differenziano nel tessuto, nella scrittura, nelle scelte timbriche. Nella tragedia (che la sera di quel 24 febbraio 1607 si definiva «favola») il coro è un’entità drammaturgica che ottempera a una regola antica: che sia intonato da spiriti o pastori, che costituisca un commento morale o un grido di compassione, esso è sempre l’elemento di mediazione fra noi e i personaggi della favola, che si assume il compito della suddivisione temporale del racconto, l’articolazione del dramma, il respiro della storia. Non cinque voci, ma una soltanto che si rifrange in cinque dimensioni.
Durante il suo magistero mantovano, Claudio otterrà solo nel 1601 di estendere la propria autorità direttoriale dalle stanze di palazzo alla basilica di Santa Barbara. Assai probabilmente aveva già partecipato all’intonazione di messe, salmi e mottetti e condiviso una certa maniera gonzaghesca di concepire la musica devota che portava avanti un ideale sapientemente costruito dal duca Guglielmo, morto nel 1587.
Guglielmo, oltre a ordinare l’edificazione della basilica (eretta un tempi brevissimi) si impegnò a insistere pertinacemente presso le autorità vaticane affinché i riti in Santa Barbara mantenessero un’identità esclusiva rispetto alle disposizioni del recente Concilio; un’operazione diplomatica tra le più complesse, che portò passo dopo passo all’istituzione di un solido organigramma ecclesiastico, di un apposito calendario, alla convalida di un programma liturgico e affidato a cantori specializzati. Intorno agli anni Settanta del Cinquecento Guglielmo invocò da Pio V l’approvazione di messale, breviario, cerimoniale e un repertorio di canto piano appositamente modellato sulle consuetudini cittadine. Il suo obiettivo fu raggiunto nel 1583 con papa Gregorio XIII, dopo trattative estenuanti: si trattava di un fatto decisamente eccezionale, se si considera che il Concilio di Trento aveva riconosciuto come legittimi solo i rituali attivi da almeno duecento anni.[4]
Al rinnovato interesse per il canto piano da parte del duca, si associava la volontà di portare avanti un modello polifonico di tradizione fiamminga: fra i diversi maestri che scrissero per questo particolarissimo luogo sacro Giaches Wert, maestro di cappella di Santa Barbara, e Palestrina, chiamato a produrre alcune messe di foggia mantovana allo scopo di agevolare la trattativa in corso.[5]
Ecco dunque il primo luogo eccezionale in cui Monteverdi si ritrovò ad agire: uno spazio esclusivo, appositamente progettato per la perfetta rifrazione delle voci, dotato di un organo magnifico e dove si poteva contare su una squadra di cantori molto affiatata.
Nel campo della produzione sacra di Monteverdi, il coro − inteso nella nostra più comune accezione − trova una più legittima sede; qui si attua un’innovazione meno esplicita agli occhi dell’uomo di oggi, ma ben più sostanziale e sostanziosa.
Sanctissimae Virgini Missa senis vocibus ac Vesperae pluribus decantandae cum nonnullis sacris concentibus: ad sacella sive principum cubicula accommodata (Venezia, Ricciardo Amadino 1610) è il lungo e controverso (in particolar modo riguardo all’espressione principum cubicula, che lascia supporre una destinazone al culto privato del duca) titolo che appare sul frontespizio del primo libro contenente musiche d’uso liturgico pubblicate da Claudio Monteverdi. Concepito per una festività mariana, è composto di una Messa e di una serie di Salmi da Vespro, presentati secondo l’ordine consueto che presuppone l’inserimento di opportuni canti fermi.
La prima parte del libro è dunque interessata da una Messa polifonica interamente costruita su una linea vocale estrapolata dal motetto di Gombert In illo tempore. L’arte di combinare in modo assai cimentoso tutte le parti in gioco è il dichiarato manifesto del lavoro, come fra l’altro si percepisce in una sorta di legenda che l’autore riporta al principio del fascicolo affidato all’organista, dove si dà mostra di tutte le fughe contenute nella composizione. Un congegno che appartiene in modo assai veritiero alla tradizione di quella stessa Messa polifonica che Guglielmo volle erigere a modello supremo e quindi un’operazione “in vecchio stile”, ma anche in stile mantovano, nonché molto pertinente alle corde monteverdiane.
Il sottotitolo «da concerto» apposto al titolo del Vespro si riferisce invece a una tipologia opposta a quella della Messa, ma anche per questo complementare. Esso comprende Salmi, Inni e mottetti eseguiti nella massima varietà di forme presenti ai suoi tempi, articolando la maggiore differenziazione possibile dei piani sonori; gli strumenti a fiato, abituali nella concertazione policorale, sono coinvolti tanto quanto i (poco più che neonati) violini e, difatti, tra le composizioni funzionali al Vespro non manca una magnifica sonata dove è incastonato il canto fermo di una litania d’uso mantovano.
Questa pubblicazione rappresenta un punto di svolta nella carriera del compositore, tant’è che per molti studiosi è da intendersi quale parziale e sottile risposta alle invettive del teorico Giovanni Maria Artusi, che dieci anni prima aveva segnalato al mondo dei curiosi alcuni errori d’ortografia contenuti in diverse composizioni di Monteverdi.[6] Perché proprio qui, e non altrove? Ma soprattutto, perché in un diverso campo tematico rispetto a quello del madrigale?
Monteverdi sceglie anzitutto di rappresentare un modello perfetto di scansione liturgica così come si articolava ai suoi tempi. Infatti, i Vespri si alternavano alla Messa secondo una ritmica successione chiamata a scandire il tempo di ogni uomo di fede: la liturgia eucaristica era anticipata, la sera precedente, dai Primi Vespri e seguita, la sera stessa, dai Secondi. Ed è in questa accezione che potremmo ricercare uno dei significati più affascinanti del termine funzione applicato alla cerimonia religiosa: derivato dal latino functio, rinvia a un adempimento, al compimento di un bisogno individuale o collettivo.
Nella disposizione degli eventi essa non segue un ordine romano, né uno lombardo e nello stesso tempo potrebbe funzionare per entrambi, avendo il suo autore opportunamente organizzato le proprie idee al fine di lasciare un certo margine di adattabilità.
Non sarà quindi azzardato considerare la presenza di più cori per un solo Vespro: quantomeno uno per il canto fermo, uno (ben nutrito) per quello figurato, uno per la “litania” della Sonata, altri gruppi di pochi cantori per i mottetti. Questo dato, unitamente alle infinite variabili offerte dalle discipline legate alla prassi esecutiva, ci permette di formulare un bilancio di
tutti i Vespri ascoltati fino a oggi: nessuno è (o mai sarà) uguale all’altro, ma nonostante questo saranno tutti veri e plausibili; e non parliamo semplicemente di interpretazione, bensì di ricomposizione liturgica, perché quello edito a stampa el 1610 non è un Vespro verosimilmente conforme all’uso pratico, ma un iper-Vespro, un modello paradigmatico frutto di una conoscenza immensa, di una straordinaria immaginazione creativa.
Il carattere più esaminato e contemplato dagli studiosi di questa raccolta è tuttavia offerto dalla perfetta compresenza di stile antico e stile moderno. Monteverdi, infatti, pare guardare continuamente sia avanti, sia indietro, tanto che a volte non è possibile sapere se stia adottando l’uno o l’altro atteggiamento. Inoltre, sembra guardare alle diverse tipologie di sonorizzazione che caratterizzano le maggiori lingue musicali del suo tempo, primo fra tutti quell’idioma veneziano che da lì a poco diventerà la sua nuova casa musicale.
Una dimora ancora una volta d’ambito esclusivo: la cappella privata del Doge, che Claudio dirigerà fino alla fine della sua vita, già da mezzo secolo aveva raggiunto una significativa espansione e quella disposizione di corpi sonori che la rendeva eccelsa in tutta Europa.[7]
Solo da uno sguardo superficiale si potrebbe giudicare antica la Messa e moderno il Vespro: a pensarci bene si potrebbe affermare anche il contrario, già che che la Messa è un perfetto esempio di ordinato esercizio polifonico post-tridentino e il Vespro è pervaso di accenni alla tradizione più remota, alle leggi più imperturbabili del canto cristiano.
Nelle studiate trame di questo monumento sonoro si affaccia anche il silenzio come ulteriore artificio narrativo. Monteverdi ne fa un uso funzionale e poeticamente diversificato: nella ricerca di particolari effetti di risonanza, nell’impiego quale figura retorica, come elemento del discorso ben distriubuito nelle parti con il fine di far respirare ordinatamente ogni cantore coinvolto in questa festa. La prima raccolta di musica sacra di Monteverdi è dunque una musica che tende all’infinito, non solo in senso puramente spirituale, ma anche perché ci ha regalato e ci regalerà infinite possibilità di realizzazione.
[1] Giovanni Battita Martini, Esemplare o sia Saggio fondamentale pratico di contrappunto fugato, Bologna, Lelio della Volpe 1774,vol. II pp.180-198, 242-250.
Tutte le opere di Claudio Monteverdi, a cura di G. Francesco Malipiero, Wien, Universal Edition 1926-1942.
[3]Claudio Gallico, Monteverdi, Torino, Einaudi 1979, p. 65.
[4] Si veda Paola Besutti, Un modello alternativo di controriforma: il caso mantovano, in La cappella musicale nell’italia della controriforma a cura di Oscar Mischiati e Paolo Russo, Firenze, Olschki 1993, pp. 111-121.
[5] È dedicato alle “messe mantovane” di Palestrina l’intervento di Paolo Bucchi, Palestrina e Mantova: storia di una relazione a distanza, Farcoro Settembre 2010 https://www.farcoro.it/palestrina-mantova-storia-relazione-distanza.html
[6] Giovanni Maria Artusi, L’Artusi, overo delle imperfettioni della moderna musica, Venezia, Vincenti 1600.
[7] David Bryant, Una cappella musicale di stato: la Basilica di San Marco, in La cappella musicale nell’italia della controriforma a cura di Oscar Mischiati e Paolo Russo, Firenze, Olschki 1993, pp. 67-74.
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