A settant’anni dalla fine della guerra c’è ancora chi nega le nefandezze del nazifascismo. In meno di dieci anni, Hitler ha fatto diventare i tedeschi un popolo di criminali. Mussolini, in vent’anni, ha trasformato gli italiani in marionette. Anch’io ho fatto in tempo a marciare obbligatoriamente ogni sabato pomeriggio vestito da figlio della lupa. Mi vergognavo e scappavo dalla squadra che camminava senza ragione lungo le strade del paese al ritmo ossessivo dei tamburi. Il lunedì, con gli assenti al sabato fascista, dovevo stare inginocchiato dietro la lavagna durante la ricreazione. A poco più di vent’anni sono andato in Germania Occidentale a cantare e a suonare il pianoforte nei locali notturni. La domenica mattina, ben pagato, mi chiamavano a suonare l’organo nelle chiese protestanti. In due anni ho imparato a improvvisare sui Corali luterani, ho vissuto una inimmaginabile serietà liturgica e mi sono innamorato di Bach. Con una tenerissima ragazza di origine ebraica, che era tornata con pochi parenti dagli Stati Uniti, andavo nei giorni liberi a visitare i campi di sterminio che parevano ancora intatti. Sono arrivato, con permessi ottenuti dalla famiglia di lei, fino a Buchenwald, nei pressi di Weimar, e più su, in Polonia, nell’orrore di Auschwitz. E non ho più dimenticato. Questo canto, che propongo anche in versione maschile con i miei Crodaioli, mi è stato suggerito da una signora ebrea sopravvissuta anche alla Marcia della morte, da Auschwitz a Lüneburg, nei mesi di gennaio e febbraio dei 1945. La parola è una mia invenzione. Ho sempre amato far canti con un breve effetto sillabico: Jola, Nana oh, Le voci di Nikolajewka… La melodia viene dalla mia tormentosa passione per il modo minore: otto semifrasi con la conclusione alla dominante per poter proseguire. Nella prima ripetizione aggiungo un controcanto al basso. La seconda è un “ponte armonico”, con un crescendo disperato verso la parte finale da eseguire con la massima sonorità possibile, dove la melodia è affidata alle voci interne e al basso. Nei miei pensieri, per le quattro parti conseguenti c’è questa intenzione narrativa: L’arrivo ad Auschwitz. Due voci per sottolineare la tragica “selezione”. Il “ponte” per l’entrata incredula nella Camera a gas. La morte tra le urla. La conclusione con due semifrasi prese dall’inizio è un’aggiunta che sinceramente non mi soddisfa, che trovo scontata, per niente originale. Ci penserò alla pubblicazione ufficiale. Nella versione a voci pari ho tralasciato il breve finale perché, con le voci maschili che permettono una maggiore varietà dinamica, ho voluto terminare con una sonorità più intensa che, volendo (come propongo in questi giorni), può spingersi fino al fortissimo.
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