Alla signora colornese, che sta tornando a casa con la spesa per dar da cena al marito, viene fatta una domanda: «Signora, Lei cosa ne pensa del Canto Gregoriano?». Tra le molte risposte possibili – non escludendo né il silenzio (ci ignora) né il Mi brucia l’arrosto (sarà vero?) – quella più verosimile potrebbe essere “non so”. Ma possiamo perdonare la signora colornese: vive in un paese, magari non ha mai sentito del gregoriano. A venti minuti circa d’automobile (non siamo più in un paese), la situazione è simile: stessa apprensione culinaria. Un dato nuovo, però, leggiamo sulle nostre carte: al neutro “non so” s’aggiunge un più interessante «Gregoriano, bello, sì, ma dopo un po’…». Diplomatico amor d’aposiopesi! Stessa risposta dopo un’ora di treno (non siamo più in una città) e dopo un’ora d’aereo (non siamo più in un capoluogo). Quei tre puntini sono un messaggio importante. L’idea che il gregoriano sia una musica vecchia e noiosa è abbastanza diffusa. Il problema, oltre che d’ignoranza, riguarda l’approccio alla materia. Non saranno queste poche righe a darne una soluzione, e nemmeno
si propongono di farlo. Vorrebbero soltanto dare qualche spunto di riflessione per chi desidera approcciarsi al gregoriano. Chi vi parla non è un ricercatore, né uno studioso: ciò che scrive gli è dettato dal quel poco di esperienza che sta maturando in lui con la pratica costante del canto. Lo spirito del gregoriano si può riassumere nella formula GRE: Grazia, Rispetto, Emozione. GRAZIA – Questa parola accorpa molti significati. Ma più di tutti, la grazia è la qualità di chi tende alla perfezione, di chi vuole elevarsi dalla musa pedestre e raggiungere un livello superiore. Obiettivo di ogni espressione umana, che la perfezione sia un’idea o un’Entità, questa oggi è una scelta personale. Il gregoriano tende a due perfezioni: una spirituale, che punta direttamente a Dio, ed una musicale. Quest’ultima si esprime in una maniacale ricerca della precisione, esemplificata al meglio dai neumi, quelle “piccole zampe di mosca”, come vennero chiamate, che costituiscono il sistema di notazione del repertorio gregoriano antico*. Il significato di ogni segno – studiato dalla semiologia – varia a seconda non solo della forma che assume, ma anche della posizione che ha nel contesto. L’interpretazione dei neumi e la loro esecuzione musicale è di fatto la ricerca di una perfezione, non diversa, se non per forma, da quella di chi ha fissato sul foglio quei segni. È la restituzione cantata della grazia gregoriana. RISPETTO – Il canto esige rispetto. È tramite il rispetto che si compie il primo passo verso la grazia. Senza di lui non esiste tensione alla perfezione, senza di lui si rimane nella volgarità. Se questo è vero in
generale, è ancor più vero per il gregoriano, il quale ne esige due forme: il rispetto per il testo, che è parola sacra e generatore del canto, ed il rispetto per il neuma, perché possa essere interpretato degnamente. Ed è proprio il neuma l’incarnazione del rispetto: esso dimostra tutto il riguardo che il notatore ha avuto del testo sacro e della musica. Un’opera d’arte come l’Antifonario di Hartker non potrebbe essere nata senza un estremo rispetto della pagina, del canto, della Parola. Il monaco Hartker (morto nel 1011) dell’abbazia di San Gallo volontariamente si rinchiuse nella sua bassa cella, tanto bassa che non poteva stare in piedi, e trascrisse l’intero repertorio dell’ufficio delle ore (parliamo di centinaia di brani). Al di là dello spirito di abnegazione fuori dal normale – per cui ebbe l’appellativo di “reclusus” e venne fatto Beato –, il messaggio che trasuda dal manoscritto di Hartker è proprio il grande rispetto per il testo musicale, per neuma e Parola, quel rispetto che il curvo monaco ha nell’offrire la sua opera a San Gallo assiso in trono, sotto la manona benedicente di Dio, nella miniatura che apre il codice**. EMOZIONE – È scontato dire che per cantare bene bisogna emozionarsi? No. E nemmeno è scontato dire che per cantare bene bisogna emozionare. Non l’emozione-spettacolo – calcata e cercata a tutti i costi da certe barbarie televisive – ma un’emozione controllata, e proprio per questo sincera e profonda. Se si vuole comprendere l’emozione gregoriana, basterà sentire un brano: Resurrexi. È il canto d’ingresso (introito) della messa del giorno di Pasqua, uno dei momenti più importanti dell’intero anno liturgico. Sicuramente un giorno di gioia, dato dall’annuncio della vittoria sulla morte e della resurrezione di Cristo. Eppure, l’espressione di gioia e di giubilo non trova risoluzione musicale come ci aspetteremmo: nessuna esagerazione, nessuna enfasi, nessuna pomposità. Al contrario: sobrietà estrema, se paragonato all’occasione liturgica. La melodia si muove nello spazio ristretto di poche note (una sesta, in cui i due estremi sono toccati raramente; di fatto quindi la maggior parte del canto si svolge nell’ambito di una quarta), che non ha slanci enfatici (non vi sono intervalli melodici superiori alla terza). Anche il modo (IV modo) contribuisce a dare al brano un’apparente espressione di mestizia. In conclusione, riporto un pensiero di Claude Debussy. Egli visse negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento in cui Parigi, capitale culturale d’Europa, si scopriva avanguardista e al tempo stesso riscopriva il repertorio antico – barocco, rinascimentale, gregoriano –, quest’ultimo soprattutto su contributo della Schola Cantorum di Vincent d’Indy, nonché dei monaci di Solesmes (i quali iniziarono la loro opera di restaurazione del canto gregoriano già alcuni decenni prima del Novecento). In quel periodo dunque, tra il 1901 e il 1912, il compositore scrisse alcuni articoli di musica, pubblicati su riviste quali La Revue blanche e Gil Blas e successivamente riuniti nel volume Il signor Croche anti- dilettante (1921). In uno di questi, intitolato Virtuosi (apparso su La Revue blanche nel 19B1), Debussy pone in una linea di continuità il canto gregoriano, i “primitivi” – cioè Palestrina, Victoria e Orlando di Lasso – e Bach, accomunati dalla capacità di gestire l’“arabesco musicale”, quel «principio dell’‘ornamento’, che è alla base di tutti i tipi di arte»*** (Debussy tiene a precisare che ‘ornamento’ non ha il significato comune datogli dalle grammatiche musicali). Scrive Debussy: «Nella musica di Bach non è il carattere della melodia a commuovere, ma la sua curva; […]. Questa conce z i o n e ornamentale è propria di quella musica che acquisisce la sicurezza di un meccanismo per impressionare il pubblico e far sorgere le immagini. Non si creda a qualcosa di innaturale o artificioso. Essa è invece infinitamente più “vera” dei poveri gridolini umani con cui il Dramma lirico prova a vagire. Conserva inoltre tutta la sua nobiltà, senza mai accondiscendere ad adattarsi a quei bisogni di sentimentalismo esibiti da coloro che pretendono di “amare tanto la musica”; essa, sdegnosamente, li costringe al rispetto, se non all’adorazione»****. Debussy sta parlando di Bach, ma indirettamente parla anche della triade “primitiva” e, ovviamente, del gregoriano, il parente protoplasto di tutti, secondo quella linea che egli stesso ha tracciato. È una descrizione che risponde benissimo allo spirito del gregoriano e che integra i concetti di grazia, rispetto ed emozione che poco sopra ho cercato di illustrare. Credo che non ci sia miglior gomma per cancellare quei tre puntini, ed invito chi sarà arrivato in fondo a queste prolusioni ad un approccio pratico al gregoriano: cantandolo, spero proverete quel che ho scritto, credo proverete quel che scrisse Debussy e sicuramente non brucerete l’arrosto.
* Per un esempio di notazione neumatica, cfr. Immagine 1.
** Cfr. Immagine 2.
*** Claude Debussy, Il signor Croche antidilettante, a cura di Valerio
Magrelli, Adelphi.
**** Ibidem
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