Scrivere qualche nota di ricordo attorno ad una personalità – e, si badi bene, non ad un “personaggio” – come Claudio Abbado non è cosa scontata. Alla gentile richiesta del Direttore Editoriale di “Farcoro” Niccolò Paganini – caro amico, oltre che stimato e appassionato professionista della musica – ho risposto con spontaneo entusiasmo: “Si, certamente, con piacere!” Poi, di fronte alla fatidica “pagina bianca” mi sono reso conto della responsabilità alla quale mi ero sottoposto. Non si è trattato di pentimento – tutt’altro – bensì di una lucida e inesorabile consapevolezza che emergeva mentre iniziavo a mettere in fila i pensieri in merito alla mia personale idea del profilo umano e artistico di questo grande artista. L’invito di Niccolò – mi si perdoni la confidenza – mi spronava con la sua consueta e ferma gentilezza a confezionare il mio scritto attraverso “un taglio dedicato alla persona, alla sua umanità e naturalmente alla sua grande professionalità”. Una prospettiva che ho molto apprezzato, anche perché è il solo sguardo che possa cercare di ricordare, senza i cascami di una retorica di maniera, uno dei pochi Uomini di Cultura dell’Italia tra Novecento e XXI secolo. Scomparso nel gennaio scorso all’età di ottant’anni, Claudio Abbado è stato innanzitutto un esempio profondamente umano per la determinazione con la quale ha affrontato la lunga malattia che ha minato la sua vita e la sua attività artistica. Parlando di un uomo, questa mi appare come la prima qualità da evidenziare, niente affatto scontata e fondamentale per comprendere a pieno il profilo e la statura della sua personalità. Una determinazione che, guardando a ritroso la vicenda biografica di questo grande artista, appare come elemento determinante del suo tracciato biografico. Nato a Milano il 26 giugno 1933 e figlio di un insegnante di violino, nel 1955 si era diplomato in pianoforte e direzione d’orchestra presso il Conservatorio di Milano. Si perfezionò in direzione d’orchestra a Vienna con Hans Swarowsky, entrando – con il suo compagno di studi Zubin Mehta – nel coro del Musikverein per poter accedere alle prove – a quel tempo chiuse al pubblico – e osservare il lavoro di direttori come Bruno walter, Josef Krips, Geroge Szell o Herbert von Karaian. Il primo grande riconoscimento arrivò già nel 1958, quando conquistò il primo posto al concorso Koussevitsky a Tanglewood, nel Massachussets: grazie a quel premio debuttò negli Stati Uniti con la New York Philarmonic. L’anno dopo debuttò a Trieste come direttore sinfonico, mentre l’esordio alla Scala arrivò nel 1960. Nel 1963 si aggiudicò il premio Mitropoulos della New York Philarmonic e fu invitato dallo stesso Karajan a dirigere i Wiener Philharmoniker al Festival di Salisburgo. Nel 1968 il debutto al Covent Garden di Londra e quello alla Metropolitan Opera House di New York. Aveva appena preso la guida della Scala quando, la sera del 7 dicembre 1968, la famosa contestazione a colpi di uova marce. Nel periodo della sua direzione, durata fino al 1986, Abbado contribuì a un profondo rinnovamento nella programmazione e nelle scelte artistiche del teatro milanese, sganciandosi da una logica puramente filologica e recuperando autori e opere per lungo tempo dimenticati. Queste sue idee, lontane dalle tradizionali logiche del suo ambiente, lo resero oggetto di aspre critiche, senza però scalfire le sue convinzioni. In questo quadro si collocano i “Concerti per studenti e lavoratori”, testimonianza della profonda volontà di Abbado di avvicinare alla lirica e alla classica anche le classi meno abbienti, sia garantendo ingressi alla Scala a prezzi popolari – tramite accordi con i consigli di fabbrica – sia trasferendo orchestra e solisti nelle periferie, dove suonarono artisti come Maurizio Pollini, il Quartetto Italiano, il Trio di Trieste. Oltre a questo, gli anni di Abbado al Piermarini – dove fondò nel 1982 l’Orchestra Filarmonica della Scala – generarono risultati artistici assoluti, grazie anche al coinvolgimento di registi come Giorgio Strehler e Luca Ronconi in ambito operistico, con determinanti letture verdiane (“Simon Boccanegra”, “Macbeth”, “Don Carlo”) e rossinane (“Italiana in Algeri”, “Barbiere di Siviglia”, “Cenerentola”), ma anche con una speciale attenzione alla seconda scuola di Vienna (da ricordare il “Wozzeck” di Berg con regia di Luca Ronconi e scene di Gae Aulenti) e alla musica contemporanea anche italiana (si ricordi la bella amicizia con Luigi Nono). Fondamentali, inoltre, le esecuzioni abbadiane delle Sinfonie di Mahler e di Bruckner, fino a quel momento pochissimo eseguite in Italia. Un percorso artistico che si snoda e prosegue attraverso la guida delle più prestigiose realtà internazionali: nel 1971 divenne direttore principale del Wiener Philharmoniker, mentre dal 1979 al 1987 fu direttore musicale della London Symphony Orchestra. La sua avventura artistica è proseguita poi alla Staatsoper di Vienna (dal 1986 al 1991), mentre dal 1989 al 2002 ha diretto i Berliner Philharmoniker. In tutte queste esperienze ha apportato un fondamentale contributo attraverso scelte programmatiche mai scontate e le sue letture musicali ricche di espressione, rigore e pulizia interpretativa. Ma l’impegno – intenso nel senso più nobile del termine – rimane elemento fondamentale della visione artistica e culturale di Claudio Abbado. Oltre all’esperienza dei già citati “Concerti per studenti e lavoratori”, vengono alla mente le iniziative destinate a valorizzare le giovani generazioni di musicisti, attraverso la creazione di orchestre come la Chamber orchestra of Europe (da lui istituita nel 1978), la Mahler Jugendorchestra (fondata nel 1986), per arrivare nel 2003 all’Orchestra del Festival di Lucerna e, l’anno successivo, all’Orchestra Mozart di Bologna. E proprio nell’ambito di questa orchestra sono nate iniziative come il “Progetto Papageno”, grazie al quale è stato avviato nel 2011 un laboratorio corale all’interno della Casa Circondariale Dozza di Bologna. Scopo
dell’iniziativa è portare i valori intrinseci del canto corale all’interno del carcere: l’ascolto reciproco, lo stare insieme, la condivisione, sono tutte attitudini richieste e sviluppate da questa pratica, che hannouna forte valenza educativa, formativa della persona e della socialità. Un’iniziativa che rappresenta uno dei tanti rimandi all’esperienza di José Antonio Abreu e del suo “Sistema”, che Abbado ammirava profondamente, come emerge dalle sue stesse parole: «Il mio soggiorno in Venezuela, dove la musica ha una valenza sociale enorme, e dove sono nate centinaia di orchestre giovanili, mi ha riconfermato che la musica salva davvero i ragazzi dalla criminalità, dalla prostituzione e dalla droga. Li ho visti, facendo musica insieme trovano se stessi». Ampliando lo sguardo, possiamo cogliere la visione illuminata di un musicista capace di vedere al di là della propria arte, auspicando una stretta collaborazione tra le varie arti, come emerge da una sua intervista del dicembre 2008: «Vorrei che si affermassero sempre più le convinzioni che ispirano il nostro modo di lavorare: studiosi, politici, artisti, organizzatori, responsabili e semplici cittadini possono, insieme, determinare una reale collaborazione tra arte, scienza ed etica». E in quella stessa intervista appare la famosa provocazione relativa al suo eventuale ritorno alla Scala, per il quale Abbado chiedeva «un cachet fuori dall’ordinario. Novantamila alberi piantati a Milano. Un pagamento in natura. Se accadrà, sono pronto a tornare. A Milano, alla Scala». Naturalmente non se ne fece nulla – nonostante l’intercessione anche dell’architetto Renzo Piano – ma rimane la forza ideologica della visione, del gesto di un musicista che guarda l’armonia del mondo nella sua profonda totalità. Una forza intensa che ho avuto la fortuna di poter osservare ed ascoltare direttamente, in occasione di tre recenti appuntamenti che ho seguito come inviato de “Il giornale della musica”: al Teatro Valli di Reggio Emilia nell’aprile del 2008 per il primo “Fidelio” di Abbado – una lettura profonda, capace di distillare i tratti più tradizionalmente “eroici” in una ricerca personale che ha sublimato i densi intrecci strumentali attraverso un cristallino equilibrio musicale, in piena sintonia con orchestra, coro e cantanti –, due anni dopo, sempre al Valli, per un intensissimo concerto tra Rachmaninov e di Beethoven con la Mahler Chamber Orchestra e la pianista Yuja Wang, ed infine nel giugno del 2011 al Teatro Farnese di Parma, dove alla guida dell’Orchestra Mozart Abbado ha offerto un momento di rara intensità distillando le note della Sinfonia n. 35 in re maggiore k385 “Haffner” del salisburghese e della “Pastorale” di Beethoven con ispirazione assoluta. Conservo con cura le emozioni che ho raccolto in queste occasioni, frutto di una energia che Claudio Abbado ha saputo trasmettere anche in questi ultimi periodi, dove gli sforzi legati agli impegni artistici si sommavano alla zavorra degli anni e di una malattia che lo ha accompagnato a lungo. E tanto più prezioso appare oggi l’esempio di questo grande Uomo di Cultura – che in queste poche righe di ricordo non ho voluto chiamare Maestro per rispettoso pudore, visto l’uso ormai inflazionato del termine – capace di raccogliere il suo profondo pensiero nella semplice frase pronunciata in una delle sue rare apparizioni televisive (era il novembre del 2010): «La cultura è come la vita, e la vita è bella!»
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