Adolfo Tanzi (1944-2008) maestro di coro e compositore, è stato per molti anni una figura di riferimento nella vita musicale parmense. Dopo gli studi nel locale Conservatorio e per un breve periodo presso l’Università di Varsavia divenne verso la fine degli anni 60’ direttore del Coro “Ildebrando Pizzetti” dell’Università di Parma e successivamente della corale “I Cantori del Mattino” di Noceto, incarico quest’ultimo che tenne fino alla prematura scomparsa. A capo di queste formazioni tenne molti concerti in Italia e in parecchi paesi d’Europa e d’America. Amico di Romano Gandolfi, fu anche direttore del coro del Teatro Regio di Parma dal 1982 al 1987.
L’aereo per New York partiva sabato 7 luglio a mezzogiorno da Malpensa, e non aspettava; per essere in orario la nostra comitiva doveva partire in treno alle 6 da Parma e una volta a Milano andare al terminal, poi il trasbordo, il check-in, insomma un ritardo alla partenza avrebbe messo in serie difficoltà il gruppo, e il pericolo c’era, impersonato da uno di noi: Adolfo, sempre o quasi in ritardo, si trattasse di prove, concerti, cene, viaggi…insomma, venne presa una decisione drastica: uno di noi doveva ospitarlo per la notte in modo da essere sicuri che al mattino fosse già a Parma e “sotto controllo” anche perché un suo arrivo da Felegara – dove risiedeva – avrebbe comportato sicuramente un ritardo pressoché fatale. La scelta cadde su di me, e inizialmente non mi preoccupai molto della cosa; la sera precedente dovevamo partecipare quasi tutti ad un concerto del Coro Pizzetti – che Adolfo dirigeva – in quel di San Benedetto Po, e dopo l’esecuzione io sarei tornato a Parma assieme a lui in macchina. Tutto bene, no? Ma non avevo fatto i conti con la sempre imprevista vitalità di Adolfo: dopo il concerto, mentre gli altri del gruppo ci salutavano frettolosi per andare a casa a dormire, Adolfo si intrattenne lungamente con gli organizzatori suoi amici, accettando anche di cenare con loro; in questi casi sapevo per esperienza che non serviva a nulla tentare di richiamarlo ad una più pratica visione delle cose, con il suo sorriso disarmante avrebbe obbiettato che non c’era fretta e che avremmo comunque raggiunto Parma in tempo utile. Mi rassegnai quindi al fato, e fu solo verso mezzanotte inoltrata che riuscimmo finalmente a metterci in viaggio: era una notte di luna piena e mentre la macchina di Adolfo divorava i chilometri nel chiarore che inondava i campi della grassa campagna mantovana, io pensai che eravamo ancora in tempo per dormire un po’; l’imprevisto era però come sempre dietro l’angolo. Avevo notato che la macchina di Adolfo era vuota e pensavo che avesse la valigia nel baule, quindi gli chiesi con finta noncuranza se effettivamente fosse lì.- Eh, no, devo ancora fare tutto- mi rispose candidamente – ma non c’è problema, andiamo a Felegara e poi ritorniamo a casa tua, per le sei siamo in tempo. Altra tegola, va bè, pensai ancora, sono otto ore d’aereo, dormirò durante il viaggio. Arrivammo a Felegara verso le due e mezza e Adolfo si precipitò in casa, accese la luce in camera sua e cominciò a buttare dentro a una grossa valigia tutto quello che gli capitava sotto mano, mutande,magliette, calzini, qualche partitura, il fedele diapason – non si sa mai, magari ci viene voglia di cantare una lauda…- e giù ad aprire cassetti e a sbattere ante. Nel giro di pochi minuti la valigia era pronta e stavamo per uscire quando una voce roca ruppe il silenzio notturno: – Dolfo!- era la signora Anetta, mamma di Adolfo, improvvisamente emersa dalla caliginosa oscurità del corridoio, in camicia da notte e sguardo truce sotto una numerosa serie di bigodini. Dolfo!- ripetè – che cosa stai facendo a quest’ora?! – Non vedi, ho fatto la valigia! – rispose Adolfo – e dove vai? – chiese ancora la signora Anetta con un misto di curiosità e di collera – Ah, vado in America… – rispose Adolfo con noncuranza, come se si fosse trattato di andare a comprare un litro di latte nel negozio all’angolo. A quel punto cominciai a covare il leggerissimo sospetto che Adolfo non avesse detto nulla di quel viaggio a sua madre, ma questo dialogo surreale non era ancora finito: – In America?..ah, bon! Ma stai via molto? – Mah… Quando torno, torno!- – Va bè, nano, bon vias! – concluse la signora Anetta, e dopo avermi salutato con un cenno del capo si ritirò. Adolfo Tanzi era fatto cosi; a parte quegli impegni che si rivelavano indispensabili alla sua vita di musicista, come dirigere cori o insegnare in conservatorio, nessuna di quelle regole che devono per forza guidare la nostra vita di tutti i giorni pareva sfiorarlo anche lontanamente. Negli anni in cui lo conobbi a fondo e nei quali si svolse la nostra amicizia tutto ciò che lui comunicava era una passione e un entusiasmo completamente rivolti ai valori artistici, musicali e filosofici della vita, e tutto questo unitamente a quella saggezza propria di chi proviene da un ambiente dove il duro lavoro manuale è l’unica possibilità per mangiare e avere un tetto sopra la testa. Intendiamoci, era perfettamente consapevole che più senso pratico avrebbe potuto regolare diversamente la sua vita, ma la sua era una scelta voluta e irrinunciabile; in un’epoca dove i telefoni cellulari erano ancora fantascienza – e dubito che negli ultimi anni della sua vita egli ne abbia fatto gran uso – la sua presenza si concretizzava all’improvviso, con pretesti spesso gastronomici – un salume da favola, un mazzo di asprelle da cucinare insieme – e poteva estendersi anche a una giornata intera, o fino alle cosiddette ore piccole. Parlava dei più disparati argomenti musicali, dalla polifonia agli autori più vicini a noi, e di tutto ciò con
una conoscenza e competenza profonda e capillare. Mai le sue opinioni si velavano di ovvio, l’argomento che trattava era vivo, il mondo che evocava si materializzava davanti ai tuoi occhi, e quando le parole non bastavano era il canto della sua voce che dava ancor più forza all’idea che lo entusiasmava. Queste occasioni di incontro erano disseminate così a caso nella nostra esistenza che l’unica possibilità per chi volesse contattarlo era quella di andare all’ingresso dell’università poco prima che iniziassero le prove del coro, o alla fine di esse. La mia presenza nel Coro Pizzetti durò più di dieci anni, e in questo periodo ebbi occasione di osservare e imparare moltissimo da Adolfo: l’anima di un pezzo, la bellezza di ciò che poteva scaturire dalla perfetta fusione tra parole e musica in un capolavoro polifonico erano da lui vissute e filtrate con emozione e passione, rendendo partecipi anche noi attraverso le prove e la successiva esecuzione di tutte quelle meraviglie che dallo sterile segno scritto ritornavano in vita; ricordo come, grazie al fiuto infallibile che aveva nello scegliere i brani da eseguire, tutta la grandezza della musica polifonica ci si rivelasse attraverso un viaggio ideale: dalla scabra bellezza del Laudario di Cortona, attraverso la lauda filippina per arrivare a Da Victoria, Palestrina, Lasso, Monteverdi, e…seppure con qualche suo dubbio da noi coristi rimosso con decisione a Tanzi stesso; pochi i pezzi per coro usciti dalla sua penna, ma tutti piccoli gioielli: non dimenticherò mai l’emozione provata all’inizio di Memento, su testo di Garcia Lorca. Bisogna però anche dire che questo suo avviluppare in un tutto l’idea interpretativa e la sua realizzazione pratica si scontrava a volte con la mancanza di preparazione di base della maggior parte dei coristi che di conseguenza imparavano le singole parti a orecchio, per cui lo studio dei brani non era spesso completamente supportato da quella parte tecnica – alfabetizzazione musicale, vocalizzi, fonetica e studio preparatorio a sezioni – che costituisce per un coro una sicura base formativa; dopo ciò l’approfondimento interpretativo è pienamente possibile, ma in Adolfo il primo stadio era spesso trascurato, essendo lui tutto teso verso il significato profondo dell’opera che intendeva eseguire. Nonostante queste difficoltà però il fascino che si ricavava dalle collaborazioni con lui ne usciva intatto, e questo era avvertito non solo da parte nostra: ricordo di aver visto assistere spesso alle prove Antonio Burzoni, uno dei più grandi maestri di coro che abbiamo avuto in Italia, il quale non ci nascondeva la sincera ammirazione e il profondo interesse che aveva per il lavoro di Adolfo. Era anche al di fuori della musica, ad esempio nelle tournées e nei dopo concerti che la personalità di Adolfo si mostrava appieno: “uomo del cinquecento”, come lui amava definirsi, figura nella quale convivevano una grande umanità, una profonda fede e nel contempo una sorta di natura goliardica attraverso la quale lui si rapportava con geniale ironia a tanti aspetti della vita e a tante persone con le quali veniva in contatto, individuando subito con diabolica intelligenza i loro tratti e il loro carattere, fossero essi buoni, cattivi, brutti o belli e da qui nascevano incontri e fatti memorabili; la sua ironia era sempre indirizzata a proposito, sia al soggetto supponente e incurante dei propri limiti che alla persona intelligente che accettava e rideva anch’essa di cuore per l’eventuale presa in giro. Ricordo che una volta si parlava di arti figurative in occasione di una mostra dedicata al 6-700, e l’interlocutore più autorevole era un nostro amico corista, grande esperto e conoscitore come pochi della storia dell’arte; Adolfo cominciò a parlare diffusamente di un certo Alessandro Porcelleri, a suo dire ottimo pittore di scuola lombarda vissuto in quel periodo e ancora ricordato per certe sue nature morte raffiguranti salami, prosciutti e cotechini, e per questo soprannominato il Gosinletto (da gosino – maiale – nel dialetto parmense). Il discorso era svolto così bene che fin dall’inizio cominciammo tutti a seguirlo con grande attenzione, e anche il nostro amico si dimostrava molto interessato, fino a quando, udito il soprannome, non proruppe in un – ma dai! – estremamente risentito, al quale fece seguito una fragorosa risata di tutti noi. In conservatorio, durante gli anni di studio, fummo testimoni di burle impensabili, anche reiterate nel tempo: c’era un vecchio professore di solfeggio, il maestro Milan, figura notissima a tutti gli studenti, la cui profonda erudizione musicale faceva da contrappeso a una personalità gretta e ottusa, rendendolo un insegnante esperto ma mortalmente noioso. Questo maestro aveva anche seri problemi di vista, aspetto questo che stimolava gli alunni a giocargli i tiri più balzani, dall’appendere un soprabito al lampadario prima che lui entrasse – Caro, vieni subito giù da lì!! – fu la sua pronta reazione, al voltare tutti i banchi e a far lezione volgendogli le spalle senza che lui se ne accorgesse, al mettere una buona dose di stracchino sulla sua sedia con le imbarazzantissime conseguenze del caso – quella volta però si finì tutti in direzione. Adolfo invece imbastì una geniale presa in giro giocando su una debolezza del vecchio maestro, che provava molto piacere ad essere ossequiato e adulato: ogni tanto, durante le lezioni, gli riferiva di aver incontrato un suo vecchio studente che lo mandava caramente a salutare, suscitando nel maestro una serie lunghissima di ringraziamenti esternati in modo esageratamente affettato; certo, i cognomi di questi maestri erano un pò bizzarri, e la bravura di Adolfo era magistrale nel descrivere il maestro Cipollini organista, il maestro Zucchelli compositore, il maestro Aglietti clarinettista e così via, andando a trovare in tutti i principali ortaggi un cognome da attribuire a questi musicisti immaginari. Oltre a ciò, dato che una parvenza di verità a questa burla poteva stuzzicare la sua vanità, il maestro Milan si soffermava a magnificare la perizia e la bravura dell’ex studente, ora celebrato esecutore ora provetto compositore a seconda del caso; bisogna però riconoscere che il vecchio maestro si prese una rivincita su Adolfo, rivelandogli così il risultato dell’esame finale da lui sostenuto nella sua materia: <bravo caro, ti saresti meritato 10 ma io ho detto alla commissione: diamogli 9 così non si insuperbisce!>(sic). Mi accorgo di aver perso il filo iniziale: e il viaggio a New York? Per questa volta tutto andò bene e alla fine, seppur con due sole ore di sonno, riuscimmo a partire e a goderci la vacanza, ma alcuni anni dopo quando il coro dovette andare in Messico per una tournée Adolfo si attardò a fare delle fotocopie, la comitiva incontrò una coda in autostrada, l’aereo aspettò il gruppo per un pò e poi decollò…il coro partì per l’America il giorno dopo. Questa volta invece, libero da impegni e privato della possibilità di spostarsi a suo piacere con la macchina, Adolfo passò assieme a noi una decina di giorni immergendosi completamente nella vita caleidoscopica della metropoli americana, con quella sua capacità quasi magica di stabilire contatti e legami con il suo prossimo indipendentemente da quelle barriere linguistiche che spesso inibiscono i più durante i viaggi all’estero. Andavamo ogni giorno a fare colazione in una caffetteria vicina al nostro hotel, gestita da una famiglia di messicani che facevano quasi tutto cantando, dal servire ai tavoli al rigovernare in cucina, e quasi subito cominciammo a cantare anche noi, passando da Estrellita e Cielito lindo a una canzonetta di Monteverdi o a un madrigale di Orlando di Lasso, ascoltati a bocca aperta e applauditi sia da loro che dai clienti. A China Town lo vedemmo entrare in una pescheria dove cominciò a parlare – Dio solo sa come, dato che conosceva solo due parole d’inglese – con alcuni cinesi mentre gesticolava verso una vasca piena di grossi pesci, e intuimmo che cercava di informarsi come cucinare e mangiarne alcuni. Innumerevoli sono gli aneddoti e le esperienze vissute al suo fianco, penso che svariate pagine non basterebbero, ma tutte queste cose non facevano altro che far emergere sempre la sua natura buona, generosa e altruista nei confronti del prossimo. Cittadino del mondo, alieno da qualsiasi forma di conformismo, con questa sua umanità tremenda dava tutto se stesso, senza considerare diversamente chi gli stava dinanzi, fosse un alto prelato, un compaesano, uno studente, un corista o un perfetto sconosciuto; ognuno riceveva attenzione, amicizia e comprensione e purtroppo a volte accadeva che qualcuno si approfittasse di questa considerazione, vanificando così quanto di buono poteva scaturire dalla sua amicizia. Sono cinque anni che Adolfo non e’ più tra noi ma io sono fermamente convinto che la sua assenza sia solo materiale: chi ha dato tanto, chi ci ha arricchito così tanto interiormente non può morire, e’ solo in una ideale stanza accanto dove continua ad essere tra noi, arricchendo la nostra vita
con ciò in cui credeva e che ci comunicava. Spetta ora a noi portare avanti questo testimone facendo tesoro del suo insegnamento. Ciao, Adolfo e… grazie!
* Michele Ballarini, violoncellista e ricercatore, svolge attività concertistica oltre a scrivere articoli e tenere conferenze in ambito musicale; insegna il suo strumento presso il Conservatorio di Parma
Scrivi un commento