In una lunga lettera da Roma dell’8 ottobre 1862, Liszt Ferenc cosí scriveva al critico musicale della Neue Zeitschrift für Musik di Lipsia, Karl Franz Brendel: «dopo aver assolto in Germania, a grandi linee e per quanto possibile, il compito sinfonico che mi ero prefissato, voglio ora assolvere quello di compositore di musica vocale religiosa».
In realtà un certo interesse nei confronti della musica corale sacra il compositore ungherese lo aveva già fermamente manifestato durante i sedici anni (1842-1858) che aveva trascorso a Weimar come maestro di cappella della corte granducale.
Qui aveva composto una Messa per voci virili (1848), una Missa solemnis zur Einnweilung der Basilika in Gran («Messa solenne per la consacrazione della basilica di Esztergom»), per soli (S.C.T.B.), coro e orchestra, eseguita il 31 agosto 1856; il Salmo XIII «Herr wie lange», per tenore solista, coro (in seguito adattato per solo coro virile) e orchestra (6 dicembre 1855) e aveva incominciato a lavorare a due vasti affreschi sinfonico-corali: Die Legende von der heiligen Elizabeth («La leggenda della santa Elisabetta») per soprano, contralto, tre baritoni, basso solisti, coro, organo e orchestra e Christus, per soprano, mezzosoprano, tenore, baritono e basso solisti, coro, organo e orchestra. Ma sarà a Roma che la musica religiosa di Liszt conoscerà il punto piú alto del suo percorso artistico, allorquando queste due opere verranno completate e vedranno la luce molti altri lavori alcuni dei quali di dimensioni minori ma pur sempre interessanti, per diverse formazioni corali e destinati al servizio liturgico,1 tra cui meritano di essere ricordati il Cantico del sol di San Francesco d’Assisi, per baritono solista, coro maschile, organo e orchestra (Roma, 1862); la Missa Choralis (1865), per coro (SATB) e organo, il Requiem per due tenori e due bassi solisti, coro di voci virili, organo, ottoni ad libitum (1867); la Messa per l’incoronazione a re di Ungheria dell’imperatore Francesco Giuseppe d’Austria, per soprano, contralto, tenore, basso solisti, coro e orchestra, eseguita a Budapest l’8 giugno 1867, la Via crucis (1878-79), per voci sole, coro, organo o pianoforte, su testo della principessa polacca Carolyne Iwanowska:2 un esempio significativo della concezione lisztiana in materia di musica sacra e della ricerca di vie nuove sul piano della forma, dello stile, del linguaggio, dell’emancipazione armonica.
Il soggiorno romano di Liszt (1861-1869) segna dunque una svolta importante per quanto attiene l’incremento della composizione musicale religiosa.
Coerente con la sua personalità poliedrica e irrequieta che lo portava a una continua ricerca del nuovo, Liszt ebbe modo di esprimere le sue idee nei confronti della musica sacra del suo tempo non soltanto attraverso le sue opere piú originali e innovative ma anche in scritti musicologici e filosofici, comparsi, a partire dal 1834, sulla Revue et gazette musicale de Paris.
Il pensiero ricorrente in questi scritti è quello di liberare la musica sacra dalle pastoie dell’eccessivo sentimentalismo e dello stucchevole formalismo che la caratterizzava ancora intorno alla metà dell’Ottocento, ben molto tempo prima che nel 22 novembre 1903, festa di santa Cecilia, san Pio x pubblicasse il suo Motu proprio «Tra le sollecitudini», con il quale si bandiva dai sacri riti ogni forma di musica che avesse sapore di profano o di teatro.3
D’altra parte le vicende della musica corale ottocentesca sembrano contraddire, almeno nella loro fase iniziale, quelle della coeva musica strumentale e operistica, pervasa – come si sa – dai fermenti rivoluzionari dell’estetica romantica che, a partire dagli ultimi decenni del Settecento investono un po’ tutti i campi dello scibile universale.
Le ragioni di questa discrasia si possono in parte ricercare nel rivolgimento causato dall’Illu minismo nella storia sociale, politica, filosofica, culturale e artistica dell’Europa del tempo, con l’esaltazione dell’oggettivismo e del razionalismo e la negazione della musica corale come veicolo privilegiato per la formazione della personalità e del carattere dell’individuo, della sua educazione morale, civile e sociale.
Non va infatti dimenticato che ancora verso la fine del Settecento lo stato della musica corale in Europa era tale che la formazione di un coro poteva essere interpretata addirittura come espressione di una nuova coscienza, come ricerca di valori egualitari e, dunque, come atto rivoluzionario in sé. La musica polivocale era allora musica priva di qualsiasi dimensione «corale», destinata esclusivamente ai solisti, eseguita nei teatri e nei salotti borghesi da apprezzati cantanti virtuosi. Non dissimile era la situazione sul versante della musica sacra, nella quale stilemi e forme di chiaro segno melodrammatico costituivano l’espressione musicale prevalente, contribuendo ad avvilire la genuina tradizione polifonica del passato di cui, non a caso, Liszt fu cultore raffinato, instancabile difensore e propugnatore convinto anche attraverso la sua stessa musica.
Unica vestigia del Chorgesang, almeno in Germania, erano i cori scolastici dei ginnasi, la cui tradizione risaliva ai tempi di Johann Sebastian Bach, formati da alunni vocalmente ben dotati e d’estrazione sociale medio-borghese. Il loro compito era quello di svolgere il normale servizio liturgico in chiesa. Ma sul finire del secolo XVIII questi cori operavano in condizioni di tale indigenza al punto da renderne assai precaria la sopravvivenza. Fu in gran parte merito del movimento romantico e della sua irresistibile forza propulsiva in direzione del rinnovamento del gusto e del costume musicale se ben presto questo stato di cose conobbe una radicale inversione di tendenza. Fattore innovativo, dai profondi risvolti etici e sociali prima ancora che musicali, fu il riconoscimento della compagine corale a voci miste come espressione di profondi rivolgimenti intellettuali e spirituali in atto. Il coro a quattro voci miste, formato da donne come «soprani» e «contralti» e da uomini come «tenori» e «bassi», divenne dunque simbolo dei tempi, idealizza la comunanza e l’unione di un popolo libero, affrancato da vincoli che in secoli precedenti lo avevano assoggettato o alla chiesa o a una corte; costituì uno dei punti nodali della concezione romantica della musica.
In tale mutato scenario, l’azione riformatrice di Liszt anche nel campo della musica corale trovò un terreno quanto mai fertile oltre che ideale.
Già nel 1834, nel saggio Über die zukünftige Kirchenmusik («Della musica sacra dell’avvenire») il Maestro ungherese aveva vagheggiato una musica sacra capace di unire il «teatro e la Chiesa su una scala grandiosa», un po’ alla stregua di come aveva teorizzato cinquantanni prima con tutt’altri intendimenti, il teorico e gesuita spagnolo Antonio Eximeno (1729-1808) nel suo trattato Delle origini e delle regole della musica (Roma, 1774).Ventunanni dopo, recensendo il libro dell’amico teorico e compositore tedesco Adolf Bernhard Marx (1795-1866) Die Muzik des neunzehnten Jahrunderts und ihre Pflege: Methode der Musik (Leipzig, 1855) [«La musica del XIX secolo e la sua pratica: Metodo della musica»], del quale aveva eseguito l’oratorio Moses, rifiutato nel 1841 da Mendelssohn, Liszt concordava con lui circa la necessità di dar vita a un dramma musicale in grado di raffigurare i varî aspetti dell’animo romantico senza la necessità di ricorrere all’apparato della scena, «poiché lo spirito indovina piú di quanto gli si possa mostrare; anzi, in molte occasioni l’immaginazione va cosí al di là delle possibilità della rappresentazione che quest’ultima invano si proverebbe a competere con essa».Non v’è dubbio che il saggio di Marx condusse Liszt a riflettere a fondo sull’idea di un teatro musicale interiore capace di appagare la sua incessante ansia di sperimentazione e, nel contempo, di metterlo al riparo, sul versante dell’opera in musica, dai rischi di non riuscire a emulare l’ingombrante lezione wagneriana o, peggio ancora, di rinchiudersi in un accademismo tanto vacuo quanto insignificante.
Forse proprio in questo dilemma si può leggere il fallimento del Nostro come autore di melodramma; in questa impotenza a dire qualche cosa là dove molto era già stato detto o a realizzare un nuovo modello di dramma musicale, si può trovare la risposta al perché egli non sia riuscito a portare a termine alcuna opera teatrale di valore artisticamente apprezzabile.4 Diverso si presenta il discorso sul versante della musica sacra di carattere teatrale: l’oratorio, appunto.
Die Legende von der Heiligen Elizabeth e Christus rappresentano, piú d’ogni altra opera lisztiana la testimonianza diretta del tentativo di creare un nuovo genere di dramma musicale. Non a caso la data d’inizio delle loro rispettive partiture è il 1855, lo stesso della pubblicazione di Die Muzik des neunzehnten Jahrunderts und ihre Pflege di Marx. Questa coincidenza potrebbe significare quanto grandi fossero la suggestione e il desiderio del musicista magiaro di sperimentazione dei contenuti e delle forme musicali che in quegli anni animavano il dibattito intorno alla musica assoluta.
D’altronde, i valori e le potenzialità creative insite nell’idea di un dramma musicale senza scena auspicati dal saggio di Marx non rappresentavano di certo una novità. Semmai essi ribadivano opinioni, orientamenti e tendenze che, sia in campo musicale sia in campo letterario e filosofico animavano il dibattito culturale nell’Europa della seconda metà dell’Ottocento.
Basti pensare ai tentativi portati avanti in tal senso da Beethoven con il Fidelio, concepito come ideale crogiolo di dramma in prosa, melodramma tout court, linguaggio sinfonico di forte contenuto drammatico; da Schubert, con l’azione sacra da concerto dell’incompiuto Lazarus, nel quale il dramma della morte viene rappresentato sull’immaginario palcoscenico dell’anima come una lunga, stupenda meditazione intorno alla dolcezza del morire, al mistero di ciò che accade non dopo, ma nel punto in cui avviene il trapasso, osservando lo svolgersi dei fatti in un’atmosfera rarefatta che nulla ha a che spartire con il ritmo del melodramma tradizionale, fatto di colpi di scena e di forti contrasti; da Schumann, con le sue scene dal Faust di Goethe; dallo stesso Wagner che, pur essendo riuscito a fornire una risposta esaustiva al problema del teatro d’opera tedesco, aspirava, come sappiamo, alla creazione di una forma musicale assoluta, in cui musica, scena e dramma fossero sottratti alla dimensione visiva dello spettatore.
Con le sue osservazioni sui limiti dell’opera lirica, anche Liszt considerava improcrastinabile la necesità di sperimentare soluzioni diverse da quelle offerte da un teatro, fossilizzato nei suoi schemi sempre uguali, ripetitivi, prevedibili, incapace di proposte strutturali alternative. E lo fa individuando nell’oratorio, cosí come aveva fatto col poema sinfonico nei confronti della sinfonia, la base di partenza dei suoi inediti progetti creativi. A differenza degli altri generi musicali come la cantata o la scena drammatica, l’oratorio offriva condizioni ideali per raggiungere lo scopo: un «carattere marcatamente epico che impediva agli elementi lirici e drammatici di comparirvi frequentemente».5
Ne sono fedele quanto emblematica conferma Die Heiligen Elizabeth e Christus, i due citati oratorî, ai quali il Nostro lavorò a varie riprese fra il 1855 e il 1867, il cui carattere dominante è fuor di dubbio epico. Epici sono infatti i soggetti di entrambi, poiché i rispettivi protagonisti appaiono quali veri e propri eroi che in diverse fogge e maniere appartengono al mondo terreno (Elisabetta) come a quello celeste (Christus) e che sacrificano loro stessi per testimoniare o portare a compimento il disegno divino.
Con la Leggenda di Santa Elisabetta, per soprano, contralto, tre baritoni, basso, coro organo e orchestra, ispirata dalla Vie de Sainte Elisabeth de Hongrie, di Charles-Forbes-René conte di Montalembert, Liszt evocava le gesta della medievale eroina ungherese Elisabetta, nuora del langravio di Eisenach, principessa brutalmente scacciata dal castello – dopo la morte del marito Ludwig, impegnato nelle crociate – dalla suocera, la regina Sofia, assetata di potere, ma in seguito redenta e votata a opere di carità. Per tale epica evocazione, su testo in lingua tedesca di Otto Roquette, Liszt realizza una partitura di grande fascino, nella quale il tema gregoriano dell’antifona mariana Salve Regina, sempre abbinato alla figura di Elisabetta, si alternano a melodie di antiche canzoni popolari medievali, episodi miracolosi si accompagnano a scene intime e familiari, intonazioni patetiche s’innestano su situazioni di carattere decisamente tragico o melodrammatico.
Lo scontro fra Elisabetta e l’ambiziosa regina Sofia con il quale inizia la Seconda parte dell’oratorio, viene stilisticamente risolto in termini di vero e proprio dramma musicale, esplicitamente desunto dai modelli wagneriani.
Di struggente bellezza è il lamento di Elisabetta per la morte del marito, esasperato da una melo dia dal profilo fortemente cromatico nella quale sovente i confini della tonalità sono abbandonati e l’ambiguità tonale tende a prevalere sulla chiarezza del tracciato modulante.
Il resto dell’opera segue linee piú tradizionali e prevedibili (suona a dir poco enfatico, alla fine, il corale unissono delle voci sulle parole «Nobilis Ungaria», privo com’è di equilibrio e di misura nella sostanza musicale).
Il «miracolo delle rose» è degno di stare al fian co della piú pura poesia trascendentale; la «scena della tempesta» e il «coro degli angeli della trasfigurazione», con le sue armonie eteree, sono pagine di bellezza incomparabile.
Risolvere a questo punto il problema dell’identità di Die Heiligen Elizabeth chiamando in causa questa o quella forma di oratorio o di melodramma equivarrebbe senz’altro ad occultarne la peculiare fisionomia e la reale originalità; anzi proprio il gioco imprevisto e inconsapevole di sdoppiamento fra forma e contenuto finisce paradossalmente per evidenziare ancor piú la presenza di soluzioni e scelte irriducibili a formule consolidate: soluzioni che, a loro volta, interessano soprattutto una drammaturgia ondeggiante fra i modelli d’ascendenza wagneriana e quelli proprî del poema sinfonico ovvero il genere piú vicino, nel catalogo lisztiano, alla sintesi espressiva e rappresentativa del teatro musicale senza scena.
Guarda caso, al pari di altri esempi di musica a programma, anche questa Legende nasce, oltre che da una suggestione letteraria, anche da un pretesto pittorico: gli affreschi del pittore tedesco Moritz von Schwind, sulla vita della santa Elisabetta, patrona d’Ungheria.
Forse non è esagerato definire questo oratorio come una forma estremamente dilatata di poema sinfonico per voci e orchestra. Una forma che si sviluppa sino a coincidere con una vera e propria immaginaria rappresentazione drammatica, del tutto coerente con le teorie dell’autore in materia di drammaturgia musicale. Nel rispondere all’obiezione di Wagner circa l’impossibilità di rappresentare esaurientemente alcunché da parte della musica assoluta, Liszt era invece convinto delle capacità quanto meno potenziali del poema sinfonico di giungere agli stessi risultati del Wort-Ton-Drama.
SeDie Legende von der Heiligen Elizabeth segna il punto culminante della ricerca lisztiana attorno al progetto di teatralità musicale senza scena, il Christus rappresenta invece il superamento di questa tendenza: esso è il simbolo di quella profonda crisi spirituale che assale il Maestro quasi in limine mortis e lo divora nella lacerante ricerca della fede.
È lo stesso compositore a descriverci la genesi di quest’opera: «la prima idea del lavoro l’ebbi intorno al 1850. Ne parlai a Wagner durante un nostro incontro a Zurigo, nel 1853. Però soltanto nel 1864 iniziai ad elaborare questa idea, durante il mio soggiorno a Roma, presso il convento di Santa Francesca romana e la chiesa di Monte Mario». La stesura della partitura procede con grosse difficoltà. Nel 1866, comunque, l’opera è conclusa. Dodici anni (1855-1867) occorreranno a Liszt per portare a termine la ciclopica impresa.
Se gravosa fu la realizzazione della partitura, non meno agevole fu la preparazione del testo poetico, scritto interamente in lingua latina. In un primo momento Liszt si avvalse della collaborazione del poeta Georg Herwegh (1817-1875); in seguito egli si serví anche dell’ Evangelienharmonie (sintesi in versi dei quattro Evangelisti) di Friedrich Rückert (1788-1866), e dei versi dell’amico e compositore Peter Cornelius (1824-1874), ricavati dalle riflessioni sul tema del Cristo della principessa Carolyn Sayn-Wittgenstein. Conclusa questa fase preparatoria, lo stesso Liszt provvide a integrare il testo con passi tratti dalla Bibbia, da inni medievali e dalla liturgia cattolica.
Appare subito evidente che il Christus presenta non poche analogie col Messia di Haendel. Il tema e l’apparato esecutivo sono pressoché identici, mentre differiscono, ovviamente, nel testo poetico, nella struttura musicale e per il diverso contesto culturale entro il quale le due opere si collocano. Entrambi illustrano gli episodi salienti della vita del Redentore, dall’Annunciazione alla Resurrezione.
Linfa musicale inesauribile del Christus il cui motivum ispiratore, come è riportato sulla prima pagina della partitura, sono le parole di San Paolo agli Efesini (4, 15), «Veritatem autem facientes in charitate, crescamus in illo per omnia, qui est caput: Christus» (Vivremo nella verità e nell’amore, per crescere continuamente e per avvicinarci sempre piú a Cristo), sono la melopea gregoriana, la modalità medievale e la polifonia d’ascendenza rinascimentale. Il recitativo, l’aria e tutti gli elementi tipici dell’oratorio barocco, classico e romantico vi sono preclusi.
Impressionante l’organico vocale e strumentale richiesto: sei voci soliste (soprano, mezzosoprano, contralto, tenore, baritono, basso), coro (s.a.t.b.), un ottavino o terzo flauto, due flauti, due oboi, corno inglese, due clarinetti in b e in a, due fagotti, quattro corni, tre trombe, tre tromboni, basso tuba, timpani, percussioni varie fra cui campane tubolari, arpa, organo (o armonium), archi. Una massa strumentale che Liszt domina con mano sicura e sfrutta in tutte le sue piú intime risorse, smentendo cosí chi lo voleva insuperabile virtuoso alla tastiera ma mediocre orchestratore.
Christus consta di tre parti.
La prima, la piú ampia, intitolata Oratorium in Nativitate Domini, comprende cinque brani: «Rorate caeli desuper et nubes pluant justum; aperiatur terra et germinet Salvatorem», «Angelus Domini», «Stabat Mater speciosa», «Pastorale», «Et ecce stella».
Questa parte è forse quella in cui maggiormen te si avverte l’influenza stilistica dell’Enfance du Christ (1850-54) di Berlioz. L’atmosfera prevalente è di carattere pastorale; l’orchestrazione trasparente di sapore quasi cameristico nei primi tre numeri («Rorate caeli», «Angelus Domini», «Stabat Mater speciosa») si fa pittoresca e sontuosa nel quarto, con la descrizione della marcia dei tre Magi verso la capanna di Betlemme. «Non è forse la sinfonia della natura – s’interroga Liszt – altro che la voce di Dio che canta?».
Nuclei motivici di chiara derivazione gregoriana alimentano l’impianto costruttivo della fuga (es. 1) con la quale l’oratorio ha inizio (il tema è ricavato dalle note inziali dell’ Introitus di primo modo, «Rorate coeli desuper», che si canta nella Messa della IV Domenica di Avvento; Isaia 45, 8) e del ridondante affresco sinfonico-corale nel quale un Angelo (Soprano solo) annuncia la venuta del Redentore (antifona «Angelus ad pastores ait», in settimo modo, che si canta nelle Lodi del giorno di Natale; Luca 2. 10-14; es. 2), culminante in un gioioso coro di cherubini («Gloria in excelsis Deo») che si stempera in toni sempre piú dolci man mano che i pastori e i re Magi si avvicinano alla grotta, al canto dell’Halleluja (es. 3).
Uno «Stabat Mater speciosa»,contrafactum del piú noto «Stabat Mater dolorosa», attribuibile for se a Jacopone da Todi (1240?-1306), per coro (S.A.T.B.)6 e organo (es. 4), un «Hirtenspiel an der Krippe» (Canto pastorale al presepio) dai non troppo mascherati toni haendeliani e l’adorazione dei tre re Magi («Die heiligen drei Könige) su un motivo di marcia («Et ecce stella», Matteo 2, 9) concludono questa prima parte, quasi a predisporre l’animo ai momenti di piú intensa religiosità delle due sezioni successive.
La musica dell’ Oratorium in Nativitate Domini ha un carattere spiccatamente «ungherese» e, per questo, venne criticata con durezza. Liszt non se ne preoccupò soverchiamente, rispondendo cosí ai suoi detrattori: «Se Rubens poté ritrarre nei suoi quadri a soggetto biblico il popolo fiammingo, perché io non posso far crescere i mustacchi ai miei re Magi? Non mi vergogno affatto di questo».
La sezione centrale del Christus, intitolata Post Epiphaniam, in cinque numeri, mostra almeno tre episodi di grande rilevanza: «Beati pauperes spiritu» (Matteo 5, 3-10) per baritono solo, coro e organo, su testo tratto dalla narrazione evangelica di Matteo (es. 5); il «Pater noster» dalle linee grandiose sul tema dell’omonima melodia gregoriana (es. 6) e «Et ecce motus magnus» (Matteo 8, 24-26) per orchestra con brevi interludî vocali in cui viene descritto il prodigio di Gesú che cammina sulle acque, attraverso una serie di episodi che richiamano ad effetto, connessi però
in un coerente e logico sviluppo compositivo. Il tema del «Benedicamus Domino», sapientemen te combinato in un fitto tessuto contrappuntistico, prepara il saluto osannante del popolo al passaggio di Gesú che fa il suo ingresso in Gerusalemme e sfocia in una trascinante fuga finale (es. 7).
«Tristis est anima mea», pronunciato dalla voce di Cristo (Baritono solo) apre la terza e ultima parte dell’oratorio (Passio et Resurrectio). Ci troviamo qui di fronte a una pagina in cui la confessione, il cordoglio, l’angoscia del compositore ungherese sul tema della Passione sono intimamente sentiti e rappresentati con un lirismo vibrante e sincero. Questa pagina va sicuramente collocata fra i vertici assoluti dell’intera produzione di Liszt e di quella universale della civiltà musicale occidentale. Segue il poderoso brano a cinque voci, sulla notissima sequenza medievale «Stabat Mater dolorosa», per il quartetto dei solisti, il coro (S.A.T.B.) e l’orchestra. Ancora una volta l’intonazione della melodia gregoriana e un antico Lamento ungherese (circa 1300) forniscono il materiale motivico sul quale Liszt costruisce questo grandioso, drammatico, ispirato movimento (es. 8).L’esultante pienezza del fugato finale «Resurrexit», preceduto dall’etereo canto dell’Hymnus Paschalis, «O filii et filiae», per voci femminili (S.A.), accompagnate dal solo harmonium e coronato dalla solenne invocazione «Christus vincit, Christus regnat» (es. 9) conduce a termine la gigantesca partitura del Christus. La sintesi dell’ingente materiale musicale profuso a piene mani da Liszt in questa pagina, esplode letteralmente nell’esultante grido liberatorio dell’«Halleluja. Hosanna in excelsis».7
Nel Christus i tratti idiomatici della scrittura sinfonico-vocale di Liszt, già posti in evidenza nella Legende von der Heiligen Elizabeth, trovano una sicura conferma, raggiungendo inoltre quella organicità nella disposizione dei materiali architettonici altrove difettosa. Equamente bilanciata fra numeri per voce sola e orchestra rievocanti alcuni episodi della vita del Redentore e preghiere corali che da questi stessi episodi sembrano derivare, la struttura complessiva del Christus rivela una tecnica compositiva davvero nuova e anticipatrice, capace di creare pagine d’una bellezza incomparabile, come la gigantesca marcia dei Re Magi, di spiccato sapore mahleriano oppure l’estrema concentrazione descrittiva, purgata d’ogni esteriorità teatrale, della tempesta sul lago di Tiberiade, in cui la continua citazione del materiale tematico all’insegna di falsi movimenti e di apparenti sviluppi, lascia trasparire l’inesausto migrare di una mente, interamente assorta nella contemplazione di Dio.
La musica del Christus, non v’è dubbio, è musica che guarda all’avvenire. Ma si avverte anche in essa un legame solido con il retaggio del passato. Vi si coglie con evidenza il senso di una modernità che non si alimenta alla pura enunciazione di sé stessa ma si nutre della rielaborazione personale di canoni compositivi indagati fin nelle pieghe piú profonde della loro essenza. Ciò vale sia per la sperimentazione e l’applicazione delle formule compositive sia per l’esplorazione delle possibilità tecnico-espressive che Liszt compie sullo strumento «voce». Questa innata vocazione al canto, questa predilezione per la voce che si sposa con la parola devozionale, è condotta sul filo di una riflessione strutturale e musicale che, nella sua eterogenea ricchezza, si lascia ricondurre sempre all’alveo di un’esperienza che trae la sua linfa ispirativa dai modelli dell’antica melopea gregoriana e della polifonia rinascimentale.
In generale, possiamo affermare che nella musica sacra di Liszt si evidenzia la forza di un contrappunto (sovente rappresentato con le sembianze dell’arabesco, del ricamo prezioso piuttosto che con le fattezze dell’architettura massiccia) e di una situazione melodica che si incontrano in una definizione formale e soprattutto espressiva, in cui il magistero degli antichi maestri è una presenza di cultura profondamente acquisita ed operante in una proiezione attuale e non un ricordo compiaciuto o una citazione erudita da nota a pie’ di pagina.
Si considerino le diafane sonoritŕ delle protopolifonie medievali che eccheggiano nella Missa solemnis zur Einnweilung der Basilika in Gran, evocatrice delle visioni del Nuovo Testamento. La tematica di questo lavoro è il canto gregoriano e la fraseologia romantica, le melodie di lungo slancio e i temi tessuti sopra un unico motivo, sviluppati per sequenze. L’armonia mescola formule eterogenee: modale e cromatica. Vi ridondano i procedimenti compositivi tanto cari a Liszt basati sull’impiego di motivi che ritornano nel corso delle diverse parti in cui la messa si articola e mutano di sembianze e di aspetto. Ancora una volta siamo di fronte a un lavoro sinfonico, a una musica a programma in cui dramma e lirismo si mischiano assieme. E il «Credo», risplendente di tutto il fulgore sontuoso dell’orchestra romantica sembra voler dominare, con un simbolismo nemmeno troppo mascherato, l’intera messa. E se la Messa per l’incoronazione a re di Ungheria dell’imperatore Francesco Giuseppe d’Austria, non eguaglia la «Messa di Gran», il suo stile è molto ardito e nuovo. Liszt si concede molte libertà per
quanto attiene la struttura liturgica come, ad esempio, la presenza del «Graduale» (Salmo CXVI), dopo il «Gloria», non contemplata dall’Ordinarium missae; un brano soltanto strumentale all’«Offertorio», alla stregua del Grand Offertoire degli organisti francesi; il «Credo» è costruito sopra un tema tratto dalla Messe royale del compositore e clavicembalista francese Henry Du Mont (1610-1684) ed è scritto in uno stile che potrebbe esser definito «neogregoriano». Nel «Benedictus», come in quello della Missa solemnis di Beethoven, s’innalza un luminoso assolo di violino. Si avverte in questa messa una forte influenza del canto popolare ungherese (molti spunti tematici sono tratti dalla nota Chanson de Rákoczi), peraltro già impiegato nella Legende von der Heiligen Elizabeth e nel Christus.
Queste considerazioni non devono però essere fraintese. Non devono in alcun modo far pensare alla musica di Liszt Ferenc come a un so fisticato esercizio intellettuale. Al contrario, imbrigliati e trasfigurati nell’elaborazione formale, sono il temperamento vigoroso e la vitalità intellettuale di un uomo che vive intensamente l’arte, e quella al servizio della parola di Dio in modo particolare, come esigenza primaria dell’essere e non come sua narcisistica ostentazione. La parola, dunque, il verbum divino che si fa canto, è l’elemento propulsivo della fantasia creativa del Maestro ungherese, il pungolo che stimola di continuo la sua fervida invenzione. Intonando il testo liturgico, Liszt avvicina l’ascoltatore al mistero della Trinità, dell’Incarnazione, della Redenzione, della Resurrezione, del Giudizio finale. E lo fa ricorrrendo quasi sempre a un motivo generatore (non è forse Dio fons et origo di ogni cosa) che rappresenta la sorgente da cui scaturiscono per contrasto altri motivi o temi che, a loro volta, offrono dei rapporti organici e mostrano i diversi aspetti del tema generatore. Il risultato estetico che scaturisce da siffatto modo di procedere è sempre quello di una musica che si fissa e si libra in uno spazio che spinge in avanti, ma che costringe anche a volgersi indietro, a interrogare il passato, inteso non come reliquia della memoria ma come perenne fonte ispirativa. L’espressione musicale diventa allora la conseguenza di un processo psicologico sviluppato attraverso un incessante lavoro tematico: il motivo psicologico e il motivo musicale procedono parallelamente, il primo evolve, il secondo sviluppa.
Tutto ciò rende estremamente difficile classifi care e contestualizzare la musica sacra corale di Liszt in una precisa categoria stilistica, proprio perché sospesa in una dimensione di straordinaria ampiezza lirica ed emotiva, che poi, a ben vedere, non è altro che la testimonianza di una cifra stilistica personale, libera da qualsivoglia demarcazione di tempo e di spazio.
Alla luce di queste considerazioni, appaiono davvero profetiche le parole della principessa Carolyne Sayn-Wittgenstein: «Liszt lanciò il suo giavellotto negli spazi futuri, ben piú in là del punto dove lo aveva scagliato Wagner». A oltre centocinquant’anni di distanza, è davvero difficile stabilire dove il giavellotto sia andato a cadere.
(*) Direttore di coro; direttore artistico e musicale degli ensembles vocali e strumentali I Solisti del madrigale e Nova ars cantandi; docente di Storia ed estetica della musica medievale e rinascimentale, Semiografia musicale e prassi esecutiva della polifonia vocale al Conservatorio «Giuseppe Verdi» di Milano e presso l’Ateneo della Basilicata; autore di saggi musicologici e di importanti edizioni critiche vocali e strumentali; presidente del Comitato scientifico per l’Edizione nazionale delle Opere di «Carlo Gesualdo di Venosa», direttore artistico dei Concorsi internazionali di canto corale di Riva del Garda (Trento) e di Quartiano (Lodi); rappresentante ufficiale per l’Italia dell’«International Choir Olympic Council».
- Il catalogo delle opere di musica sacra di Liszt enumera ottantatre titoli.
- La Iwanowska (1819-1887) era la moglie separata del principe russo Sayn-Wittgenstein. Liszt la conobbe nel 1847 a Kiev e intratenne con lei una relazione sentimentale che durò fin quasi agli ultimi anni della sua vita. La principessa, donna coltissima e dotata di forte carattere, esercitò un’importante influenza sulla personalità e sulla vena ispirativa del musicista ungherese.
- Come si legge nel Motu proprio, la musica liturgica doveva tornare a «essere santa e quindi a escludere ogni profanità, non solo in sé medesima ma anche nel modo onde viene proposta per parte degli esecutori; a essere arte vera, non essendo possibile che altrimenti abbia sull’animo di chi ascolta quell’efficacia che la Chiesa intende ottenere accogliendo nella sua liturgia l’arte dei suoni; a essere universale, nel senso che pur concedendo ad ogni nazione di ammettere nelle composizioni chiesastiche quelle forme particolari che costituiscono in certo modo il carattere specifico della musica loro propria, queste però devono essere subordinate ai caratteri generali della musica sacra, cosí che nessuno di altra nazione, all’udirle, debba provarne impressione non buona».E a quale musica si addicevano in sommo grado queste qualità, se non al canto gregoriano, il «canto proprio della Chiesa romana, il solo canto che essa ha ereditato dagli antichi padri, che ha custodito gelosamente durante i secoli nei codici liturgici, che direttamente propone ai fedeli come suo, che in alcune parti della liturgia esclusivamente prescrive e che gli studi piú recenti hanno sí felicemente restituito alla sua integrità e purezza»?
- Don Sanche ou Le château d’amour, un’opera in un atto, risalente agli anni 1824-25, realizzata piú che altro per scopi propagandistici, ha un libretto (di M.me Théaulon e de Rancé) «a effetto» che contiene quasi tutti gli ingredienti teatrali di repertorio (danze contadine, cupidi che scendono dal cielo, un’aria del sonno, una scena di tempesta, una battaglia, una marcia funebre e un balletto finale) ma è di scarsa consistenza musicale e valore artistico.
- Le idee rivoluzionarie di Liszt coprono ogni aspetto dello scibile musicale. La sua concezione del direttore d’orchestra è assolutamente innovativa oltre che anticipatrice: «Il compositore – egli scrive sulla partitura di Die Heiligen Elizabeth – considera la battuta come un’abitudine brutale e contraria al buon senso e che vorrebbe poter annullare nell’esecuzione delle sue opere. La musica è un susseguirsi di suoni che si chiamano l’uno con l’altro e che devono potersi legare fra loro e non essere, al contrario, soffocati dal battito della misura». Forse si può trovare qui la causa di tutte le discordie fra il musicista ungherese e i cori e le orchestre con le quali egli ebbe a che fare, poco avvezzi a questa sua maniera di dirigere «libera» e costantemente tesa alla ricerca dell’essenza della musica.
- L’esperienza derivata nel corso della preparazione dell’esecuzione viennese della prima parte del Christus (l’Oratorium in Nativitate Domini), nel 1871, sotto la direzione di Anton Rubinstein, con Anton Bruckner all’organo e con i cantori del «Singwerein der Gesellschaft der Musikfreunde», convinse Liszt a inserire l’accompagnamento organistico a questo brano, originariamente pensato «a cappella».
- La prima esecuzione integrale del Christus avvenne il 29 maggio 1873 nella chiesa di Herder, a Weimar, con Liszt come direttore. In questa occasione la masssa orchestrale e corale fu imponente: oltre 300 esecutori provenienti da Weimar, Jena, Erfurt e Sonderhausen. Tuttavia l’esecuzione del novembre successivo, nel teatro Vigadó di Pest, diretta da János Richter fu ancora migliore.
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