tradizioni, autori e repertorio
La Romagna è tradizionalmente una terra abitata da gente sanguigna e ricca di valori: il lavoro della terra, la staticità dovuta a quest’ultimo, hanno creato un forte radicamento territoriale, una grande ricchezza di usanze connesse ai diversi momenti dell’anno e al ritmo dell’annata agricola, aspetti questi che investono anche l’aspetto canoro.
Spesso qualificati (non necessariamente a tor to) come rivoluzionari e teste calde i romagnoli generalmente tendevano al canto solistico più che a quello corale. Era anche un uso frequente quello del canto a stornello, o quello del canto antifonale, con due voci che si rispondono l’una con l’altra. La lingua era sempre il vernacolo, in quanto nessuno (tranne i sacerdoti o le persone di alto ceto sociale) era in grado di parlare l’italiano, tranne magari qualche parola storpiata.
In questo contesto socioculturale si muove Francesco Balilla Pratella, nato a Lugo (Ra) nel 1880 e diplomatosi in composizione al Conservatorio di Pesaro sotto la guida di Pietro Mascagni. Pratella, grande appassionato della propria terra e conoscitore dei canti e delle usanze che questi accompagnavano, inizia una capillare opera di ricerca sul territorio della Romagna. I mezzi sono quelli dell’epoca: bicicletta o calessino per spostarsi, matita e carta pentagrammata per trascrivere i brani. Ora la ricerca etnomusicologica è molto più raffinata: di ogni informatore si annotano nome, età, provenienza, si raccolgono varie versioni del brano, le si confronta, si registrano i contributi in formato mp3. Per Pratella (come per qualunque altro intellettuale del primo Novecento) una mondina era una lavorante, non un’informatrice, e il suo nome non aveva importanza: contava il brano musicale, non la persona che te l’aveva fatto sentire. Dal ristretto ambito zonale, il Nostro passa ad una ricerca – fatalmente non altrettanto approfondita – su tutto il territorio nazionale, che sfocia in una pubblicazione dal titolo “Saggio di gridi, canzoni, cori e danze del popolo italiano” (Bongiovanni, Bologna). Tornando all’ambito locale, Pratella pubblica, presso lo stesso editore, quattro serie di “Cante romagnole” per coro a 4 voci maschili o a 6 voci miste, spesso senza indicare se si tratti di armonizzazioni proprie di canti preesistenti, o se invece siano brani originali in stile popolare.
Negli stessi anni un altro avvenimento aveva cambiato il panorama corale romagnolo. Il poeta Aldo Spallicci, altro grande appassionato delle usanze romagnole, aveva avuto l’idea di fondare gruppi corali con l’obiettivo dichiarato di mantenere, tramandare e valorizzare attraverso il canto gli usi e i costumi della terra di Romagna. Spallicci interessò a questo progetto il musicista forlivese Cesare Martuzzi, che si dimostrò subito coinvolto nell’iniziativa. In una memorabile sera, Spallicci e Martuzzi radunarono in un capannone una trentina di contadini, operai, braccianti e chiesero loro di cantare i brani che conoscevano. Inizialmente timorosi, gli astanti prese ro gradualmente fiducia e iniziarono a cantare com’erano abituati gli stornelli e i canti spiegati che li accompagnavano nel lavoro. Martuzzi, diversamente da Pratella, non fissò su carta i canti che gli vennero presentati, ma semplicemente prese da essi l’ispirazione e lo stile melodico per le sue composizioni originali. In questo senso quindi Martuzzi non può essere definito un etnomusicologo, ma semplicemente un compositore interessato all’ispirazione popolare.
La nascita delle prime camerate dei Canterini Romagnoli (come Martuzzi e Spallicci definirono il loro primo gruppo) interessò profondamente Pratella, che proprio per questi nascenti complessi scrisse le raccolte delle cante romagnole (la definizione tipica dei brani dei Canterini è proprio così, al femminile: la “canta”) di cui si è detto sopra. Inizialmente i cori erano solo maschili, a quattro voci, successivamente integrati da voci femminili, divise in soprani e contralti, per cui spesso i brani più antichi sono presenti in due versioni, l’una per coro maschile, l’altra per coro misto. Alla nascita del gruppo forlivese seguirono ben presto quello lughese – ispirato da Pratella – e quelli di Massa Lombarda, Imola, San Pietro in Vincoli e Russi. Questi cori generalmente si coagulavano attorno alla presenza di un direttore-compositore carismatico: alla presenza di Pratella (che però non fu mai direttore del coro, lasciando ad altri l’incombenza e tenendosi sullo sfondo) a Lugo e Martuzzi a Forlì, fecero da contraltare le figure di Turibio Baruzzi a Imola, Antonio Ricci a Massa Lombarda, Domenico Babini a Russi e Bruto Carioli (che però non era compositore, e nemmeno musicista professionista, essendo invece titolare di una farmacia) a S. Pietro in Vincoli.
Vale la pena di notare che brillano per la loro assenza alcuni dei principali centri della terra di Romagna, quali Cesena, Ravenna e Faenza; a mio avviso, ciò è dovuto al fatto che in questi ambiti più “cittadini” le
tradizioni e il gusto del canto popolare avevano meno attrattiva, e mancava spesso una figura carismatica di riferimento che potesse fungere da catalizzatore dell’interesse.
Del resto fino a pochi anni fa (e forse questo tarlo in qualche testa alligna ancora) le parole “popolare” e “artistico”
venivano messe in contrapposizione, negando che dalla viva voce o dall’estro del popolo potesse nascere qualcosa di artisticamente valido. In tempi successivi Ravenna colmň la lacuna con la fondazione del Gruppo corale Pratella Martuzzi da parte dello stesso Bruto Carioli, mentre non conosco gruppi riconducibili all’esperienza dei Canterini Romagnoli negli altri centri citati.
Abbiamo quindi il formarsi di due filoni artistici: quello pratelliano, etnomusicologico, che affianca alla composizione originale il recupero e la valorizzazione – attraverso l’armonizzazione, la revisione e l’integrazione dei testi – di brani popolari autentici, e quello martuzziano, non interessato direttamente alla tradizione autentica, ma che da questa trae ispirazione per lo stile e la cantabilità di brani composti appositamente. Nel solco pratelliano troviamo Antonio Ricci, che a Massa Lombarda crea un gruppo, tuttora attivo e a lui intitolato, per il quale armonizza canti massesi o risorgimentali, affiancando ad essi alcune composizioni originali su parole del fratello Ettore. Sulla scia di Martuzzi si pone invece l’imolese Turibio Baruzzi, anch’esso fondatore di un gruppo corale tuttora attivo, e anche in questo caso, oggi a lui intitolato. Vale la pena di ricordare nuovamente che i criteri etnomusicologici del tempo erano profondamente diversi da quelli attuali, e non posso nascondere un sorriso quando leggo, nelle raccolte di Pratella, la fatidica frase “Solo la prima strofa è originale; quelle successive sono state scritte da me in sostituzione delle originali, sconvenienti e licenziose”; inutile dire che, nelle occasioni in cui mi è stato possibile reperire i testi originali raccolti da Pratella, agli occhi attuali di “sconveniente e licenzioso” era rimasto assai poco…
Tornando alla nascita delle prime camerate, grande fu l’influenza di Spallicci sulla diffusione delle prime cante e sulla nascita di cori che le proponessero in pubblico. Oltre ad offrire le proprie poesie per essere musicate, principalmente a Martuzzi, ma anche Pratella e Guido Bianchi di Coccolia (frazione di Ravenna ai confini con Forlì) compongono brani su suoi testi, egli diffonde le cante con l’ausilio delle riviste “Il plaustro” e “La Piè” da lui fondate la prima nel 1911 (e chiusa nel 1914) e la seconda nel 1920 insieme a Pratella e ad Antonio Beltramelli, letterato, giornalista e conoscitore della Romagna. La lettura delle riviste e la pubblicazione degli spartiti delle cante crearono le condizioni ideali per il nascere di gruppi corali nelle varie città.
La prima canta romagnola del nuovo stile, scritta ovviamente da Cesare Martuzzi con testo di Aldo Spallicci fu “La majè” (la maggiolata), scritta nel 1908 e presentata al pubblico per la prima volta nel 1910. E’ il caso di notare che nello stesso 1908 Pratella (non ancora contagiato dal futurismo) fa rappresentare, al Teatro Comunale di Bologna, l’opera su libretto proprio “La Sina d’Vargoun” (approssimativamente traducibile in “Rosellina di Vergone”, dove il lettore difficilmente capirebbe qualcosa in più prima di scoprire che Vargoun/Vergone è un personaggio la cui figlia si chiama Sina/Rosellina). In quest’opera Pratella fa espliciti riferimenti alla Romagna: ivi – nelle campagne della zona di Solarolo – si svolge la vicenda, che a sua volta pullula di riferimenti a usanze prettamente locali, e la prima entrata del coro è su una canta tradizionale, ancorché accompagnata dall’orchestra. Nonostante quel che si potrebbe pensare dal titolo, l’opera è in italiano, ed è comunque un melodramma in tre atti, con tutti gli annessi e connessi: grande orchestra, coro, coro di voci bianche nel secondo atto, personaggi tradizionalmente strutturati come soprano e tenore nel ruolo dei due innamorati, e il baritono “cattivo”. Non per nulla Pratella era allievo di Mascagni. Il sottoscritto possiede sia il libretto stampato sia la fotocopia dello spartito manoscritto – gentilmente fornito dalla signora Eda Pratella, figlia vivente del Maestro – e ho notato una discrepanza che ascrivo all’intervento di Mascagni. La vicenda si conclude con Sina, la protagonista, che pugnala a morte Selmo d’Zarlett (suo ex fidanzato che l’ha abbandonata), all’uscita della chiesa dove questi si è sposato; nel libretto Sina fugge senza parlare, nello spartito (dopo una pagina e mezzo di cancellature fittissime) si sofferma, trattenuta da un altro personaggio, e urla, senza intonazione: “L’ho ucciso”! Ogni riferimento a Compare Turiddu…
Le ancora numerose compagini di Canterini Romagnoli, eredi del lavoro della triade Spallicci – Pratella – Martuzzi, tendono a focalizzare il loro repertorio sui brani di questi autori. Accanto a loro e alle figure “zonali” sopra ricordate, vanno citati alcuni altri compositori: Guido Bianchi, nativo di Coccolia, che ha musicato un imponente numero di brani tra i quali spiccano le cante dei dodici mesi dell’anno; Angelo Creonti di Solarolo, eccellente contrappuntista e per lunghi anni docente di Cultura musicale generale presso il Conservatorio “Martini” di Bologna, accostatosi alla composizione in dialetto piuttosto tardi ma autore di un brano conosciutissimo come “Tott um arcorda te”; Dario Mirandola, nativo di Medicina ma operante a Lugo da vari anni, autore di varie partiture tra le quali spicca “La nebia”; altri autori da menzionare sono Alberto Ceccarelli di Forlì, Giuseppe Calamosca di Ravenna e Dante Rava di Lugo.
Tra i brani più conosciuti del repertorio dei gruppi di Canterini Romagnoli, ricordiamo anzitutto “La majè”, di Martuzzi su testo di Spallicci, conosciutissima e importante anche storicamen te come prima canta del nuovo filone compositivo; “Gli scariolanti”, che è il brano più celebre e che ormai appartiene al patrimonio corale nazionale anche grazie al testo in italiano, raccolta e armonizzata da Pratella; ancora di Martuzzi “A gramadora”, meglio conosciuta come “Bela burdela” dalle prime parole del testo di Spallicci; la dolcissima “Nina nana”, trascrizione di Pratella per coro misto di una melodia popolare; tutta la raccolta dei mesi dell’anno di Guido Bianchi, su testi di Rino Cortesi, per coro misto a sei voci, spesso con solisti (fino a tre, soprano, tenore e baritono, nella canta “Setembar”).
Il corpus complessivo delle cante romagnole, tra brani antichi trascritti modernamente e cante originali a partire dai primi anni del XX secolo, consta di circa duecento cante, ed è tuttora in evoluzione: il Gruppo corale “Pratella – Martuzzi” di Ravenna indice periodicamente un concorso per la composizione di cante romagnole, che in edizioni anche abbastanza recenti ha permesso di conoscere brani di autori nuovi, giovani ed entusiasti. Tra questi vogliamo citare in modo particolare il M° Carlo Argelli, direttore del coro “Francesco Balilla Pratella” di Lugo, che ha vinto due volte il concorso con le cante “Ravèna” e “Vos”, entrambe su testi di Nevio Spadoni.
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