La Selva di Varia Ricreatione di Horatio Vecchi, data alle stampe per la prima volta nel 1590 (Venezia, A. Gardano), è una delle opere più geniali del musicista modenese e sicuramente anche la più varia e interessante fra quelle composte durante i sette anni di permanenza a Correggio (1586 – 1593), anni che a loro volta risultano fra i più fertili della sua vita artistica. Fanno parte di quest’opera 47 brani suddivisi in “Vari soggetti a

Frontespizio della Revisione critica a cura di Giovanni Torre (2007)

Frontespizio della Revisione critica a cura di Giovanni Torre (2007)

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Frontespizio della Selva nella stampa del 1590

3, a 4, a 5, a 6, a 7, a 8, a 9, e a 10 voci. Cioè, Madrigali, Capricci, Balli, Arie, Justiniane, Canzonette, Fantasie, Serenate, Dialoghi, un Lotto amoroso, con una Battaglia a Dieci nel fine, e accomodatovi la Intavolatura di Liuto alli Arie, ai Balli, e alle Canzonette”.

Frontespizio della Selva nella stampa del 1590 Frontespizio della Revisione critica a cura di Giovanni Torre (2007) Fino a pochi anni fa, di questi 47 brani ne figuravano molto pochi nei repertori dei gruppi vocali interessati alla produzione profana del ‘500 italiano. Questa assenza era sicuramente dovuta anche alla mancanza di una edizione moderna e completa dell’opera a cui fare riferimento. Con la presente pubblicazione, realizzata in occasione delle Celebrazioni del IV Centenario della morte di Orazio Vecchi, tenutesi a Modena durante tutto l’anno 2005, si è voluto colmare questa lacuna, con la speranza di far conoscere meglio uno degli Artisti più sensibili e umani del grande secolo dell’arte polifonica italiana, e di far rivivere, in chi lo canta e in chi lo ascolta, l’atmosfera poetica e popolare della sua terra d’origine. Attualità della Selva per un repertorio di musica d’assieme Nella Selva, Orazio Vecchi utilizza per la prima volta e in forma pienamente articolata, quella «poetica» del «molteplice» che continuerà a sperimentare anche in tutti i suoi successivi e molto più noti capolavori: Il Convito musicale (1597), L’Anfiparnaso (1597) e Le Veglie di Siena (1604). La Selva rappresenta quindi una primizia, e come tale sprigiona tutta la freschezza e il sapore propri dei frutti selvaggi d’inizio stagione (come Vecchi stesso definisce i 47 brani della raccolta). E questa freschezza e questo sapore donano alla raccolta, rispetto alle altre tre opere maggiori, un fascino del tutto particolare. E’ il fascino selvatico della brulicante efflorescenza di forme e della compresenza, apparentemente casuale, di aulico e di villanesco (e di vocale e strumentale: nella Selva c’è la sola musica di Vecchi esplicitamente per strumenti). Come tali, essi non solo si prestano a una grande elasticità di scelta per un repertorio che voglia spaziare sui più svariati generi del XVI secolo, ma si prefigurano anche, e a pieno titolo, come esempi di musica d’assieme, da sperimentare all’insegna del divertimento musicale ancora oggi perfettamente in linea con lo spirito originale voluto dal suo Autore: “SELVA dico dunque per non seguire in essa un filo continuato, così veggiamo nelle Selve gli arbori posti senza quell’ordine che ne gli artificiosi giardini veder si suole …….A questa voce SELVA aggiungo poi di RICREAZIONE, perché si come in una Selva si mirano varietà d’herbe, e di piante porgere ai riguardanti tanto diletto, così debba la varietà dell’harmonie sparsa fra questi miei canti sembrare una SELVA. Et havendo altresì giunto in uno lo stil serio col famigliare, il grave col faceto, e col danzevole, dovrà nascerne quella varietà, di che tanto il mondo gode.” Lo «stil serio e il famigliare, il grave, il faceto e il danzevole» nella «varietà d’herbe e di piante» della Selva Delle quattordici “varietà d’herbe” e di piante che nella Selva Vecchi espone all’ammirazione dei “riguardanti”, e dei quarantasette sapori di “frutti selvatici” che lo stesso offre all’assaggio dei visitatori, quelle che meritano una attenzione particolare, perché capaci di generare il maggior “diletto”, appartengono al “famigliare”, al “faceto” e al “danzevole”. Sono “frutti” cresciuti sugli alberi centenari della cultura popolare e che offrono al Vecchi, nella sua veste di «poeta e cantore della sua terra», il mezzo per esprimere al meglio la sua ineguagliabile arte musicale. Di questi sapori, che meriterebbero «in toto» di figurare in un repertorio di canti del ‘5oo emiliano, soprattutto se caratterizzato dalla volontà di testimoniare le produzioni artistiche che hanno trovato nella cultura popolare dell’epoca motivo di ispirazione, mi limiterò a citarne solo alcuni.c Il primo frutto che il “riguardante” è invitato ad assaggiare è il Capriccio a 5, Margarita dai Corai: esempio di stile «comico-famigliare» in cui viene descritto il comportamento di una giovane sposa che senza tanti scrupoli usa darsi ad avventure extra-coniugali, approfittando delle frequenti assenze del marito, da lei considerato «turluru», o sempliciotto, perché più preoccupato di dissetare il suo asino con vino malvasia comprato a Pavia, che a tenerle compagnia. Ora, è interessante notare come il testo utilizzato dal Vecchi sia ancora conosciuto in ambito popolare con piccole variazioni, per esempio, nel folklore della stalla della bassa modenese, o come filastrocca nel carpigiano, e nelle campagne del veronese. Altro esempio è il Capriccio ancora a 5 Cicirlanda, magistrale tratteggio dell’ambiente dell’osteria e dell’atmosfera che in essa creavano i contrasti fra la bella cameriera e gli allegri avventori, al canto del «Buon pro ti faccia». Nelle parole iniziali «Cicirlanda», «Che comanda?», il testo è rimasto nella tradizione come filastrocca per bambini. A questa «vinata» ne segue un’altra abbinata a una suggestiva “chanson a boire” popolare francese, Je veu le cerf, che nella versione ritmica italiana dello stesso Vecchi viene trasformata, nella parte finale, in un fantasmagorico inno a Bacco. Gli altri quattro Capricci sono esempi di “stile danzevole” con cui Vecchi, servendosi anche dell’accompagnamento del liuto, amplia e arricchisce la vivacità espressiva già presente nei testi poetici. Fra questi brani, una citazione particolare merita il ballo in ritmo ternario Gioite tutti, indicato nella stampa originale come «Saltarello detto il Vecchi». Questo Capriccio è una diretta testimonianza, in forma artisticamente elevata, del credo estetico del Maestro: un vero e proprio inno ai piaceri della giovinezza che il Vecchi invita a gustare per tempo, «in suoni e in canti e in balli», prima che «s’imbianchi il crine». Allo stesso genere di brani con accompagnamento di liuto appartengono le Arie a 3 e le Canzonette a 4. Di queste ultime, esempio particolarmente interessante è il brano So ben mi c’ha buon tempo, aria che ha goduto subito di una grande celebrità e che ha mantenuto fino ai giorni nostri, tanto da figurare in molte raccolte di musica rinascimentale per coro. Il testo poetico, condito con un intreccio musicale vivace e arguto a ritmo di balletto, inizia con espressioni dialettali ancora tipiche della parlata modenese e si articola in una lunga serie di massime e di proverbi popolari rivolti con fare scherzoso e per dileggio alla figura dello Zanni, eterno innamorato non ricambiato e contrapposto a chi invece «ha buon tempo», cioè a chi è assistito dalla buona sorte amorosa. Giunto alla metà dell’opera, il “riguardante”, nell’addentrarsi sempre più nei sentieri della Selva, non può non rimanere affascinato e coinvolto dal grazioso quadretto musicale «en plein air», che il Vecchi traccia con tocchi di pennello vivaci e luminosi nelle due parti della Serenata a 6, Tiridola non dormire, e Sai ch’io ti dico. Questo capolavoro è uno degli esempi meglio riusciti di realizzazione di «varietà d’harmonie» all’interno dello stesso brano. Procedendo, il cammino si fa più aspro e impervio, articolandosi su canti a cori contrapposti a 7, 8, 9, e 10 voci. Ma anche in queste composizioni Vecchi offre motivo di divertimento musicale, come nel simpatico gioco di società delle tre parti del Lotto Amoroso a 7, o nella bizzarra quanto singolare babele linguistica dei Diversi linguaggi a 9, costruita con l’ausilio delle maschere della commedia dell’arte, sulle arie delle due canzoni popolari «La Franceschina» e «La Girometta». Per giungere, infine, alla conclusione del viaggio con la monumentale Battaglia d’Amore e Dispetto a 10 e a cori contrapposti: saggio di notevole perizia contrappuntistica scritto in occasione dei festeggiamenti organizzati da Marco Pio, signore di Sassuolo, in onore della sposa Clelia Farnese, figlia naturale del cardinale Alessandro Farnese, al ritorno dalle nozze celebrate nell’autunno del 1587 nella principesca villa Farnese di Caprarola. Si chiude così, con un inno all’amore e con la Battaglia delle battaglie, un’opera che si può considerare un tributo completo al secolo della polifonia vocale, da parte di uno dei più sensibili interpreti dell’arte polifonica del suo tempo. A me non resta che rivolgere ai lettori che si sono avventurati in questa Selva, lo stesso augurio che era solito esprimere il suo Giardiniere:
«E VIVETE FELICI»
(Orazio Vecchi, Le Veglie di Siena)

Orazio Vecchi Nacque a Modena e studiò con Salvatore Essenga, un monaco dell’ordine dei Servi di Maria; contemporaneamente era guidato negli studi spirituali in un monastero benedettino. Prese i voti nel 1577. Sin dalla fine degli anni settanta del secolo aveva frequenti relazioni coi musicisti della Scuola Veneziana, come Claudio Merulo e Giovanni Gabrieli; quindi collaborò con essi nella realizzazione di una sestina per un matrimonio ducale. In questo periodo si trovava in viaggio al séguito del conte Baldassarre Rangoni, da Bergamo a Brescia. Occupò la carica di Maestro di cappella presso Salò dal 1581 al 1584. Poi divenne direttore di coro a Reggio Emilia fino al 1586. Nello stesso anno si trasferí a Correggio, ove scrisse moltissimo, benché si sentisse isolato dai maggiori centri musicali come Roma, Venezia, Firenze e Ferrara. Per ovviare a ciò tornò a Modena, ove ricoprì la carica di mansionario (sacerdote che cura anche il coro). In questo periodo ebbe delle difficoltà finanziarie, come accennò in alcune lettere. Nel 1597 visitò Venezia, ove pubblicò una raccolta di canzonette ed una nutrita serie di altre composizioni, verosimilmente i frutti dei sedici anni precedenti a Correggio ed altre città. Una delle più importanti composizioni, che poi rimarrà la più nota, è l’Amfiparnaso, una via di mezzo tra madrigale e melodramma. Nel 1598 il duca Cesare d’Este chiamò Vecchi come maestro di orte. A Firenze Vecchi udì il nuovo genere dell’opera nell’Euridice di Jacopo Peri. In séguito tornò a Modena, ove continuò a servire nella cattedrale fino alla sua morte, avvenuta nel 1605.