Il gesto in tre movimenti
Si vuole subito ricordare come il precedente gesto in quattro movimenti sia stato definito attraverso l’utilizzo di tre sole direzioni, una in meno rispetto al numero dei movimenti.
A questo proposito è opportuno riproporre di seguito i quattro movimenti e le tre direzioni risultanti:1
Sovrapponendo i quattro PF3 coincidenti, ave vamo potuto ottenere la configurazione definitiva, costituita appunto da tre sole direzioni:
Si può quindi immaginare che anche per il gesto in tre tempi ci si possa limitare a due sole direzioni, una in meno rispetto ai movimenti. In effetti, anche ricordando la convenzione di attribuire al primo movimento la direzione verso il basso, al penultimo quella verso l’esterno del direttore e all’ultimo quella verso l’alto,4 si potrà facilmente determinare la seguente configurazione:5
Facendo sovrapporre i PF coincidenti si otterrà la figura seguente:
Sarà ovviamente possibile – in alcuni casi ad dirittura necessario – aprire l’angolo di lavoro, adesso piuttosto acuto, per indirizzare la seconda suddivisione del secondo tempo più in basso verso destra rispetto a quella in figura 4, per aprire il braccio verso l’esterno.6
L’apparente schematicità del gesto proposto deve ovviamente considerarsi soltanto indicativa. L’essenzialità del disegno non impedirà infatti di impossessarsi del gesto e di renderlo plastico, in rapporto alla propria sensibilità artistico-gestuale e alle personali caratteristiche morfologiche. Il necessario arricchimento del gesto, però, non deve andare a discapito della sua chiarezza, che è frutto immediato, diretto, ma soprattutto estremamente efficace dell’uso del PF. Per questo si raccomanda, almeno all’inizio, di mantenersi quanto più possibile fedeli al PF durante la scansione dei movimenti, specialmente quando si desideri intervenire variando i parametri della dinamica e dell’agogica.
Durante il movimento delle mani si dovrà avvertire una speciale attrazione centripeta verso il PF – ma questo in tutte le misure di tutti i tempi quando adottiamo la tecnica del Punto Focale – evitando perciò di allontanarsi velocemente verso l’esterno dopo averlo toccato. Così facendo finiremmo con tutta probabilità per scandire il tactus ritmico con un leggero anticipo.7 Dovremmo cioè evitare tutte le tentazioni gestuali di tipo centrifugo, che spingono il gesto verso l’esterno e spostano il tactus proprio dove si trovano “appostate” le seconde suddivisioni, pronte ad essere innescate anche quando non sia necessaria la loro presenza, o peggio quando essa sia addirittura controproducente.
È offerta una variante molto interessante per scandire il tempo ternario in modo diverso dal precedente, dipendentemente dalla velocità. Nel caso di un andamento alquanto veloce non è infatti consigliabile scandire tutti e tre i movimenti. E qui il direttore è posto di fronte a un bivio. Se la velocità lo permette passerà a dirigere “in uno” scandendo un unico movimento verticale, ma questo è ben noto. È il caso più comune dei passaggi in tempo ternario o senario di epoca medievale e anche rinascimentale. Quando invece la velocità non sarà tale da poter condurre in uno – per non lasciare troppo soli i cantori scandendo il tactus ogni tre note (men che meno se i cantori dovranno cantare note suddivise…) – ma non sia nemmeno agevole battere “in tre”, allora scandiremo il tempo ternario con la via di mezzo, cioè “in due”! Già, tornando a ciò che dicevano gli antichi musici del Rinascimento, converrà scandire il ternario con due movimenti in battere e uno in levare.8 Si avrà cura di fermarsi un istante sul PF al primo tempo, e poi rimbalzare su di esso per indicare il secondo tempo e spostare il braccio verso l’alto per… lasciare che passi il tempo necessario perché trascorra il terzo tempo. Al di là del fatto che si tratta di un gesto molto elegante e molto musicale, si rifletta su come tale singolare movimento del braccio sia in grado di fornire una particolare vitalità ritmica al fraseggio. Cercando di scendere un po’ nella pratica – per quanto sia possibile farlo su un foglio di carta… – si consideri una frase ternaria di ¾ con la presenza di una minima seguita da una semiminima: il gesto del direttore dovrà scandire inversamente una semiminima seguita da una minima. L’impulso della ripercussione sul PF dato sul secondo tempo creerà una valida sollecitazione per i cantori – per non dire obbligo… – a muovere la voce sulla loro semiminima posta sul terzo tempo. Un po’ di sperimentazione da parte del direttore e anche dei cantori, trattandosi di una scansione di nuovo tipo, permetterà di raggiungere risultati molto intensi dal punto di vista del fraseggio e del ritmo.
Il gesto in due movimenti
Sembra ormai acquisita dalla prassi comune la possibilità di poter scartare subito il gesto con formato secondo il vecchio sistema dell’uno in battere e uno in levare. Il motivo risiede nel fatto che qualunque impulso o comando gestuale che sia dato verso l’alto (levare) non contiene in sé nessuna chiara sollecitazione per il cantore, e non ne suscita una reazione convinta. Ci limitiamo a riflettere sul fatto che in un gesto siffatto il battere acquisirebbe un carattere ritmico particolarmente incisivo, mentre il levare mostrerebbe tutta la sua evanescenza e la sua trasparenza a causa del fatto che non colpisce qualcosa, ma vola via dissolvendosi. Questo sancirebbe la configurazione di un primo tempo forte e di un secondo tempo debole, scontrandosi con la usuale situazione in cui uno stesso tema polifonico compare dapprima sul primo tempo della moderna battuta e successivamente sul secondo tempo, senza che ovviamente in quest’ultimo caso la sua presenza debba in nessun modo apparire qualitativamente e/o quantitativamente minoritaria.9 Inoltre nel caso in cui si adottasse un primo tempo con un movimento perpendicolare dall’alto verso il basso simile ai gesti in tre e quattro movimenti già trattati, il disagio della situazione appena descritta aumenterebbe a causa dell’incisività percussiva perpendicolare di un tale gesto.
E’ anche per evitare quest’ultima situazione che si preferisce adottare la figura della parabola 10 per scandire il gesto in due movimenti, in modo da limitare le personali interpretazioni della pur legittima dicitura “uno in battere e uno in levare”, che portano la gestualità nell’ambito incontrollato del soggettivismo e del personalismo, dando vita a figurazioni altrettanto legittime, se vogliamo, quanto fumose e complicate:
La parabola, già dotata di per sé di regolarità e simmetria tali da consentirne una immediata “lettura” da parte degli esecutori, permette di “accarezzare” il punto focale lateralmente, in modo più morbido e meno netto, ma non per questo meno preciso della percussione perpen dicolare. Si tratta in pratica di disegnare una “U” con il vertice coincidente sul PF:
Come si può vedere dal disegno, si suggerisce di orientare il primo tempo verso l’esterno del corpo. Si tratta infatti di un comando per l’eventuale gesto d’attacco che appare più propositivo nei confronti di quello rivolto verso l’interno, più introverso e per questo meno adatto ad un momento particolarmente significativo come l’inizio di una frase. Inoltre viene così rispettata la consuetudine internazionale riguardante la direzione dei gesti. Il primo movimento di una misura in due tempi va infatti verso il basso essendo primo tempo, ma anche verso l’esterno essendo contemporaneamente penultimo tempo. In questo modo, come accennato poc’anzi, il PF viene accarezzato lateralmente, e questo movimento è in grado di rendere molto bene la fluida scorrevolezza delle frasi polifoniche, soprattutto nella musica coeva. In essa non contava l’accento sul primo tempo della battuta – che non esisteva nello stesso modo in cui la conosciamo noi – ma l’accento delle parole.
Si curi anche che i due lati della figura non siano disuguali (cfr. fig. 7), per non incorrere nell’er rore di aumentare la velocità del movimento del braccio nel tratto più lungo e di diminuirla in quello più corto, fornendo all’andamento un incedere in certo senso affannoso e in qualche modo irregolare:
Ogni qual volta si dovesse sentire il bisogno di una scansione gestuale più netta e incisiva, che non conceda troppo spazio alla poetica discorsività del testo musicale ma che si preoccupi par ticolarmente del sincronismo dell’assieme corale e dell’esattezza ritmica, basterà rendere appuntito l’angolo della parabola sul PF, passando dalla forma a “U” a quella a “V”:
Anche in questo caso, come per gli altri tempi, il vantaggio, oltre che nella coincidenza dei due tempi in un unico PF, risiede nella possibilità di effettuare facilmente una suddivisione tutte le volte che essa si dovesse rendere necessaria, dal momento che si possono distinguere facilmente una prima metà di ogni gesto sul PF, e una se conda metà all’estremità del movimento. Basterà fermarsi sul PF e rimbalzare.
Emerge anche un altro notevole vantaggio della tecnica del PF rispetto a quella classica: la possibilità di creare facilmente attraverso il gesto un fraseggio legato. Nella tecnica classica la mano era costretta a fermarsi una volta giunta su ogni tempo della battuta, poiché il movimento finiva lì e non poteva proseguire. A meno di non procedere adottando quelle curve sinuose ma anche fumose che il direttore d’orchestra è solito impiegare proprio per ottenere il legato laddove il gesto si dovrebbe fermare. La tecnica del PF non prevede di norma una fermata all’arrivo su ogni tempo, ma prosegue per percorrere la seconda suddivisione del tempo. In questo modo, volendo, il gesto crea un continuum che può non fermarsi mai, creando negli esecutori lo stimolo a fraseggiare in modo ben legato.
Probabilmente non è necessario precisare che queste descrizioni, così apparentemente meticolose dal punto di vista geometrico, vanno in realtà in tutt’altra direzione rispetto al tentativo di omologare e uniformare in modo stereotipato e soprattutto inflessibile ciò che di per sé non può esserlo per sua natura, e cioè la gestualità direttoriale. Essa rientra di diritto nella sfera personale della morfologia, della fisiologia muscolare, della cultura e del vissuto di ogni direttore: per questo è opportuno ripetere che dovrà essere riveduta e rivisitata secondo quelle che sono le variabili fisico-psichiche di ognuno. Quello che si sta cercando di fare è di fornire alcuni parametri che permettano di scegliere fra tanti gesti quelli dotati di oggettiva efficacia, pensati, provati e ben assimilati, che permettano al pensiero musicale del direttore di fluire liberamente, senza nessun ostacolo, dalla sua mente alle sue mani attraverso le sue braccia, fino all’ultimo esecutore.
In fondo è quello che succede quando si impara una qualunque lingua, compresa la lingua madre: vengono fornite indicazioni assolute a riguardo della grammatica e della sintassi, degli errori da non compiere, dell’uso corretto delle forme verbali e lessicali, ma poi ognuno parlerà la lingua secondo le caratteristiche del proprio pensiero e della propria organizzazione mentale, creando e seguendo uno stile personale. Anche in tema di pedagogia e didattica musicale nel campo della composizione, ad esempio, si imparano le regole da osservare, per poi magari anche poterle infrangere con convinzione e soprattutto con una mirata e consapevole finalità.
Quindi, per allargare il discorso sulla direzione d’orchestra,11 per la cui tecnica gestuale valgono i medesimi parametri che stiamo valutando per il coro, in qualunque occasione sarà sempre possibile riconoscere la tipicità di alcune posture direttoriali. Saltano facilmente agli occhi di tutti alcuni tratti caratteristici e inconfondibili, come l’elegante raffinatezza della mano sinistra di Abbado, il gesto divertito e scanzonato di Bernstein, quello roboante del primo von Karajan e quello conciso e risolutivo delle sue ultime prestazioni, i movimenti nervosi degli avambracci di Prêtre, la sinuosità della punta della bacchetta di Metha, lo scatto del polso destro di Maazel…
Sembrerebbe opportuno adesso approfondire un argomento che riguarda i direttori nello stes so modo come gli strumentisti ad arco. Essi si trovano di fronte alla stessa difficoltà quando devono capire istintivamente quale dovrà essere la giusta velocità costante per concludere la durata della nota utilizzando l’intero arco. Quando il direttore riuscirà a capire la stessa cosa, allora otterrà un bellissimo suono legato. Il suo braccio, infatti, scorrerà uniformemente, percorrendo i raggi delle ideali circonferenze della dinamica, il cui centro coincide con il PF e di cui abbiamo già avuto modo di parlare in precedenza12
Probabilmente la cosa sembrerà naturale ed istintiva, ma un’attenta osservazione del gesto altrui metterà certamente in evidenza questa caratteristica del movimento, che compare molto più frequentemente di quanto si possa immaginare. Si potrà notare in molti casi la mano colpire il PF, rimbalzare, poi fermarsi sulla circonferenza, dove il braccio – giunto troppo presto – attenderà l’arrivo del tempo successivo da scandire. La velocità del gesto risulterà pertanto irregolare e discontinua. Di conseguenza il fraseggio sarà anch’esso privo di continuità e di distensione, con un andamento irregolare particolarmente evidente in occasione dell’ultimo movimento. Esso sarà debole come l’accento, ma anche contratto e in qualche modo irrequieto. Anche le note lunghe risentiranno facilmente di qualche anomalia. Analogamente una velocità eccessiva costringe sempre il direttore a compiere alcune curve per “far trascorrere” il tempo, che confondono la chiarezza della conduzione e diminui scono la sua comunicatività.13
Al contrario, una volta raggiunto il dominio necessario, il braccio dovrà riuscire a scorrere i movimenti con grande uniformità, magari sfruttan do anche l’articolazione del polso per ottenere maggiore fluidità e morbidezza, atteggiamenti entrambi essenziali per ottenere un fraseggio elegante e legato. Astraendo queste riflessioni dal contesto sembrerebbe che stiamo trattando della condotta dell’arco anziché della tecnica gestuale del direttore. In realtà il concetto è applicabile ad entrambe le situazioni.
In effetti, uno dei limiti più comuni riscontrabili durante le esecuzioni corali sono proprio le interruzioni del fraseggio, la frammentarietà delle frasi e della punteggiatura musicale, la presenza di respiri che accorciano i valori delle note e in frangono la continuità delle linee melodiche. A tutto ciò il direttore finisce a volte per abituarsi, fin tanto che qualcuno non glielo fa notare, magari durante i colloqui con la giuria nei concorsi o in occasioni simili… Nella maggior parte dei casi, però, è proprio alla frammentazione dei suoi stessi movimenti che può essere ricondotta la tendenza del coro a interrompere il legato. In qualche modo l’errore del direttore finisce per legittimare involontariamente una vocazione spontanea già posseduta dai cantori, che è quella di prendere il fiato nei momenti meno opportuni (prima delle note lunghe, dopo di esse, prima della risoluzione di una dissonanza, nei momenti più delicati di un pedale, ecc.). Prima di accanirsi contro queste ben note situazioni inopportune e poco eleganti,14 il direttore farebbe bene a percorrere a ritroso la strada che ha condotto il coro a comportarsi così: con un certo grado di attenta autocritica potrebbe riconoscere che la causa non è distante da se stesso.
In questo caso è probabile che egli possa ancora migliorare la sua tecnica gestuale, anche se per giudicare i movimenti di un direttore non c’è persona meno adatta di lui stesso. Al di là di una eventuale manchevole capacità di autocritica, bisogna ammettere che nessuno di noi è esente da una certa dose di amorevole indulgenza verso se stesso in materia di giudizio estetico. Se poi al lato estetico si aggiunge la necessità di giudicare la reale efficacia concertativa e direttoriale dei gesti, allora è inevitabile farsi scudo immediatamente di una “immunità direttoriale” che ci vorrebbe preservare da ogni assalto. La risposta classica è: “il mio non è un coro di professionisti, ma di dilettanti amatoriali”, oppure “i miei cantori mi capiscono benissimo”.
Sono entrambe risposte che non permettono un dialogo costruttivo, ma che nemmeno giu stificano il perseverare in una tecnica di qualità non sufficiente. Nel primo caso ci sono tutte le premesse perché il coro di “dilettanti amatoriali” rimanga tale per sempre. Non è mai così vero come nel coro, infatti, che tutto dipende dal “capo”. Per sua stessa natura, l’insieme variegato dei cantori non è dotato di capacità auto-rigeneranti tali da innescare un qualunque processo di qualificazione, e meno che mai dare ad esso continuità. E questo sia sul piano vocale che – ancora di più – su quello della concertazione. Se il direttore non si pone a capo di questa cordata e non trascina uno per uno, solidalmente, verso un obiettivo sempre nuovo, la cordata si sfrangia e la metà delle persone si perde per strada. Compresa la qualità artistica. Questo lento processo di sfaldamento porta ad una penosa agonia, nella quale il coro può faticosamente ritrovarsi a languire anche per molto tempo prima di autodistruggersi, o di cambiare direttore.
All’altrettanto comune affermazione secondo la quale, dopo tanti anni trascorsi insieme, il coro saprebbe capire ogni gesto del suo direttore, si dovrebbe rispondere con la pratica, cercando di mostrare quante delle potenzialità artistiche di quel coro siano rimaste per tanto tempo addormentate e inespresse. Semplicemente perché non erano state stimolate attraverso un gesto adatto che – non è necessario ricordarlo – costituisce l’unico mezzo di comunicazione possibile a disposizione del direttore durante il concerto.
Ad ogni modo, anche limitandosi a valutare i fatti soltanto da un punto di vista concettuale e non pedagogico, non è mai opportuno trattare il coro per tutta la sua vita con un linguaggio gestuale semplificato fino al depauperamento. La paura di pretendere troppo da un gruppo del quale, evidentemente, non si ha troppa stima, impedirà di raggiungere nel tempo una duratura maturazione. Questo impedimento scaturisce in questo caso proprio dal direttore, il quale lascerà incompiuto un processo artistico che, per essere veramente tale, deve essere attraversato da uno sviluppo continuo.
Purtroppo è inevitabile anche fare i conti con la certezza che l’accontentarsi di quello che già si possiede in fatto di tecnica gestuale da parte del direttore costituisce un forte ostacolo a misurarsi con una metodologia nuova. D’altronde un certo sospetto iniziale può essere considerato legittimo, finché esso non arrivi ad erigere un muro insormontabile che impedisce di provare e di tentare altre soluzioni. Si aggiunga anche che per nessuno di noi è facile mettersi nella situazione di chi, pur godendo di una autorità riconosciuta e incontrastata, si debba mettere in discussione per migliorare se stesso, magari allontanando abitudini tanto dannose quanto consolidate. Un rimedio infallibile? Usare la telecamera per riprendere i concerti, e soprattutto le prove. Ma attenzione: si possono avere brutte sorprese. Nelle prove non ci sono i freni inibitori del concerto (pubblico, colleghi, persone che per qualche motivo risultano scomode), e la conduzione può raggiungere parametri eccessivi per dimensioni, enfasi e carattere. Di contro, durante il concerto si è sottoposti a sollecitazioni emotive ben più profonde e coinvolgenti, al punto da perdere potenzialmente il controllo dei movimenti. Non solo delle braccia, ma di tutto il corpo: ondulamenti eccessivi, proporzioni del gesto inadeguate alla situazione sonora contingente, gambe e ginocchia che si piegano continuamente, baricentro troppo mobile ed instabile, movimenti di consenso della testa, articolazioni del braccio usate troppo o troppo poco, posizioni inopportune delle dita ecc… Tutti atteggiamenti inconsapevoli, che il direttore scopre di avere solo guardandosi attraverso un occhio non compiacente come quello di una telecamera. Seguirà un fastidioso periodo di incertezza, preludio alla guarigione dagli inconsapevoli difetti che minavano l’efficacia del suo operato. Ne trarrà vantaggio lui stesso, ne guadagnerà il coro, troverà giovamento tutto l’apparato che ruota intorno ad esso, ne godrà il pubblico durante l’ascolto e la visione…
Alla fine, la questione si risolve nel trovare una tecnica che permetta alle proprie idee musicali di passare attraverso le braccia e di arrivare ai cantori in modo diretto, completo e significativo. Non importa se siano dilettanti o professionisti. Le intuizioni musicali del direttore non devono restare intrappolate nella rigidità delle braccia, o confuse fra movenze offuscate o insolite. La tecnica di un attacco in levare, ad esempio, pur con tutte le sue varianti, deve rimanere molto specifica e caratterizzata in ogni occasione, senza cedere alla tentazione di chiamare l’attacco con una suddivisione, per esempio. E non importa se lo si debba dare ad un coro parrocchiale o al coro di professionisti.15 Abbracciare soluzioni oggettive allontanando quelle troppo personali e individualistiche non significa sacrificare il proprio temperamento e ridurre all’anonimato la propria gestualità; e nemmeno soffocare la propria personalità. L’indole di ognuno, infatti, non mancherà di manifestarsi ugualmente, attraverso una connotazione del gesto che non potrà comunque in nessun modo separarsi dal proprio personale carattere.
Si tratta di imparare un linguaggio che serva per esprimersi e farsi capire da tutti. Come accade nel caso delle lingue: se chi parla possiede un vocabolario limitato, ma soprattutto troppo personale, può soltanto raggiungere il risultato di mischiare i propri pensieri con quelli dell’interlocutore, senza arrivare ad una vera e propria comprensione dei messaggi. Come trovarsi in una Torre di Babele, dove ognuno parla senza nutrire troppe speranze di essere capito. Il messaggio artistico ha invece bisogno di un vocabolario chiaro ed efficace, perché i concetti da esprimere possono raggiungere ambienti molto delicati. Magari attraversano la filosofia, oppure spaziano dall’estetica alla sociologia. Altre volte si immergono negli antri più emozionali dell’essere, risvegliando sensazioni addirittura ancestrali. In tutto questo può accadere che le note si rivelino essere soltanto una componente marginale, o costituiscano solo la scintilla iniziale di un complicato processo umano e artistico di alta levatura. Alta, come deve essere la qualità di tutti gli aspetti del dirigere.
NB: Il presente articolo costituisce un breve estratto e una anticipazione di un libro sulla direzione del coro che sarà pubblicato in seguito dall’autore.
[1] Cfr. Fig. 11 e Fig. 13 pubblicate nel precedente articolo: Walter Marzilli, Alla scoperta della tecnica gestuale moderna, in: Farcoro, n° 3, 2009, rispettivamente pp. 9 e 10.
[2] Si ricorderà che la direzione verso il basso e quella verso l’alto, in realtà, coincidono. Viene utilizzata la separazione per facilitare l’identificazione della doppia direzione delle suddivisioni.
[3] Nei precedenti articoli (Cfr. Farcoro, n° 2 e 3) si era convenuto di indicare con questa sigla l’unico Punto Focale che si veniva a determinare.
[4] Cfr. articoli precedenti.
[5] Si ricorderà anche che l’identificazione di un unico PF suggeriva di passare attraverso di esso anche ad ogni seconda suddivisione di ogni tempo, quindi anche prima di salire verso l’alto per l’ultimo movimento.
[6] Si raccomanda solo di non raggiungere l’ampiezza di un angolo retto per non rendere inopportuno e soprattutto inefficace il movimento del terzo tempo, che attraverserebbe “silenziosamente” il PF.
[7] Non si ripeterà mai abbastanza che il gesto in anticipo reclamato dalle scuole di direzione d’orchestra diviene inutile – anzi dannoso – con l’adozione della tecnica del PF.
[8] Cfr. fra gli altri Orazio Tigrini, Compendio della Musica, Venezia 1588, Libro IV, cap. 16.
[9] Sembra ormai consolidato il fatto che la polifonia antica debba essere condotta in due movimenti e non in quattro, ove possibile, nonostante ancora esistano ambiti culturali di parere opposto.
[10] Non si tratta certo di una novità. Già nel 1611 Agostino Pisa nel suo trattato intitolato Della battuta musicale raccomandava di usare la parabola per scandire il tempo in due movimenti.
[11] Ma solo per la sua maggiore incidenza sulla percentuale di presenza nei mezzi mediatici rispetto alla direzione del coro.
[12] Cfr. Walter Marzilli, Alla scoperta…, op. cit. p. 10.
[13] E’ ben noto come i direttori d’orchestra siano soliti condurre il movimento andando sul tactus con un certo anticipo rispetto alla scansione ritmica. Ciò è certamente da ricondurre alla pratica di attribuire al gesto proprio quell’impulso centrifugo di cui parlavamo poco fa. Non è da escludere che questo “prezioso” anticipo del direttore altro non sia che un semplice ritardo dell’orchestra, che risponde con una certa indecisione ai gesti del direttore. Spesso l’orchestra concede infatti solo una prova generale prima del concerto, e ciò non basta per raggiungere una comprensione profonda della tecnica del direttore invitato. Se a questo si aggiunge la possibilità che i gesti possano essere troppo poco comprensibili a causa delle curve, si capisce che l’orchestra attenda l’abbassarsi dell’archetto del primo violino per superare i passaggi pericolosi…
[14] Bisogna ammettere che questi ultimi due aggettivi possono essere spesso attribuiti anche alle reazioni del direttore durante le prove. Qui, chi è senza peccato scagli la prima pietra…
[15] Anzi, nel secondo caso sarà assolutamente necessario, per non perdere autorevolezza e credibilità…
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