Nella polifonia antica ha giocato un ruolo importante il cantare in falsetto, la cui tecnica fu probabilmente descritta molto tempo prima. Jerome di Moravia nel XIII secolo, nel trattato “Discantus positio vulgaris”, descrisse tre registri vocali: vox pectoris, vox guttoris, vox capitis (registri di petto, gola e testa). Fino al XIX secolo ogni accenno alla vox capitis (poi definita voce di testa) può essere preso come riferimento per il falsetto. La consapevolezza sulla distinzione dei registri vocali divenne più pronunciata dal tardo Medio Evo, allorquando l’estensione delle linee melodiche della polifonia, con particolare riguardo alla musica sacra che era cantata esclusivamente da voci maschili, cominciò ad espandersi. L’uso delle voci dei ragazzi per le parti alte è menzionato per la prima volta verso la fine del IX secolo, quando l’autore del testo “Scolica enchiriadis” permise che nell’esecuzione dell’organum “la voce più alta può essere sempre sostenuta dalle voci dei ragazzi”. L’evidenza delle immagini ci sembra indicare, tuttavia, che nei secoli a seguire le linee acute della polifonia erano più spesso eseguite non dai ragazzi, ma dagli uomini, che cantavano in falsetto quando era necessario. Un po’ alla volta, con il graduale espandersi della musica polifonica, si giunse ad una maggior definizione dei differenti timbri ed estensioni delle voci maschili. Sul finire del XV secolo, ad esempio, ci fu un rapido aumento di interesse verso la voce del basso, osservabile questo non solo nella composizione di linee separate per tale voce a guisa di fondamenta d’armonia per il contrappunto (il contratenor bassus) ma soprattutto nell’enfasi per le voci basse, a causa dei loro nuovi effetti sonori. La nomenclatura della voce pose l’accento sul prefisso greco “bari” (basso) producendo invenzioni come baricanor, baripsaltes, bariclamans, barisonans, baritonans. Compositori come Busnois, Pierre de La Rue e Ockeghem scrissero lavori che diedero risalto a ben due parti di basso al di sotto dei tenori; la “Missa Saxsonie” di Nicolas Champion (1526) ha una parte di basso e una per i baritoni. Non c’è da sorprendersi se Tinctoris definì Ockeghem come il più raffinato basso che egli avesse mai sentito. Questa moda manieristica sulle nuove tendenze riguardanti le parti gravi fu, tuttavia, di breve durata; le voci maschili per la polifonia sacra erano normalmente, nel tardo Rinascimento, Bassus, Tenor, Altus, (solitamente eseguita da tenori acuti) e Cantus o Discantus (generalmente cantato da falsettisti fino alla fine del XVI secolo).
Pochi cantori prima della seconda metà del XVI secolo sembrano essere stati famosi come solisti. Il cantore, che era solamente un interprete della musica di altri compositori, non viene mai menzionato negli scritti antichi e i primi cantori i cui nomi sono conosciuti furono trovatori e trovieri dall’XI al XIII secolo, per una tradizione che voleva poeta, compositore e cantore come usualmente una sola persona. Il quasi contemporaneo Minnesänger era visto come aristocratico cantore e come poeta e compositore del repertorio che eseguiva. Il compositore-cantore continuò a perdurare nello sviluppo della musica dalla fine del XIV secolo all’inizio del secolo XVI nei centri culturali in Francia, Paesi Bassi e Italia. Philippe de Vitry fu appellato, in un trattato anonimo del XIV secolo (una volta attribuito a Theodoricus de Campo), come il “fiore e gemma dei cantori” e Paolo da Firenze fu probabilmente solo uno dei tanti compositori che erano anche cantori. Dufay, La Rue, Josquin, Obrecht, Agricola e altri, che spesero la loro carriera presso varie corti europee, agirono sia come compositori che come cantori. Dalla seconda metà del XV secolo, non appena alcune corti italiane come Napoli, Milano, Firenze cominciarono a emulare il coro del Papa, ci fu grande richiesta dei cantori fiamminghi, e per la prima volta cantori di un’altra nazionalità furono richiesti per esibirsi in un Paese diverso dal proprio.
Verso la metà del XVI secolo cominciarono ad apparire trattati di musica che rivelavano un nuovo approccio all’arte del cantare; stiamo parlando del “Fontegara” di Ganassi dal Fontego (1535), del “Trattado de glosas” di Diego Ortiz (1553) e del “Compendium musices” di Adrianus Petit Coclico (1552). Cantare divenne sempre più connesso con l’arte ornamentale e, sotto l’influenza della pratica strumentale, molti di questi trattati furono indirizzati principalmente a suonatori di flauto, viola da gamba, ecc… Sebbene gli ornamenti potevano essere applicati ai mottetti e ad altre composizioni sacre, i cantori utilizzarono questa nuova arte principalmente nella musica profana ed in particolare nei madrigali. L’innovazione più significativa nella storia del canto durante la seconda metà del XVI secolo fu l’apparizione della voce femminile (specialmente come soprano) sia come importante esecutrice che come fattore influenzale nella composizione. Vi sono abbondanti prove dal Medio Evo in avanti della presenza di voci femminili nell’esecuzione di musica profana, ma la loro partecipazione al canto non si riflette in alcuna richiesta obbligatoria per tale voce nelle composizioni del periodo. Probabilmente la maggior parte delle donne dedite al canto o a suonare strumenti presso le corti europee, fino al XVI secolo, erano cortigiane, ed è probabilmente una delle ragioni per cui è difficile rintracciare la loro presenza attraverso i registri finanziari dell’epoca o altra documentazione erudita. All’inizio del XVI secolo, tuttavia, un numero di donne di nobile rango divenne seriamente interessato all’arte musicale. Un notevole esempio fu Isabella d’Este, Marchesa di Mantova (1474-1539), appassionata mecenate delle arti in generale e della musica in particolare, collezionista di strumenti, liutista, e cantante. Nella sua epoca tutta la musica profana (frottole e primi madrigali) utilizzava estensioni vocali confortevoli per voci maschili, con le parti di falsetto che non erano mai al di sopra del RE’’. I madrigali delle decadi seguenti riflettono la “scoperta” della voce di soprano. Nella metà del XVI secolo il compositore ferrarese Nicola Vicentino operò una distinzione tra composizioni “a voce mutata” (senza voci femminili) e “a voce piena” (con voci miste) e scrisse madrigali che portarono la voce di soprano fino al SOL’’. Questo sviluppo, avvenuto in varie corti del nord Italia così come a Roma, raggiunse il suo apice in Ferrara durante il regno di Alfonso II d’Este che formò un ensemble di virtuosi, diventato poi il famoso “Concerto delle Dame”, che includeva Lucrezia Bendidio, Tarquinia Molza e Laura Peverara (a quest’ultima furono dedicati un notevole numero di madrigali). Questo nuovo suono eseguito da un ensemble di voci alte, per lo più femminili, è usato, per esempio, nel primo libro dei madrigali di Monteverdi (1587), dove, di fatto, il basso entra solo, quale stratagemma musicale, dopo otto o più battute di pausa.
Il nuovo stile portò con sé un forte elemento di virtuosismo che interessò tutti i cantori, dai bassi alle voci più alte. Il rovescio della medaglia fu che spesso gli ornamenti improvvisati furono estremi e di cattivo gusto, e perciò soggetti ad essere criticati. Giovanni de’ Bardi, nel suo discorso sulla musica antica e sul buon modo di cantare (1578) si rivolse a Caccini lamentandosi dei cantori che “con i loro disordinati passaggi rovinavano un madrigale in un modo tale che neanche il compositore stesso lo avrebbe riconosciuto come sua personale creazione”. Una simile lamentela fu espressa da Pietro Cerone, nel suo “El melopeo y maestro” (1613). Alcuni compositori, come Giaches De Wert nell’ottavo, nono, decimo libro dei madrigali composti tra il 1586 e il 1591, cominciarono a scrivere i virtuosismi all’interno della musica stessa, sperando di abolire la libera improvvisazione. La passione per l’ornamentazione vocale trovò uno sfogo più adatto nella monodia. L’esponente per eccellenza di questo nuovo genere fu Giulio Caccini (1554-1618) che nella sua prefazione a “Le nuove musiche” descrisse un elaborato stile di ornamentazione vocale che, egli spiega, era distinta e diversa dagli usi che se ne faceva nella musica strumentale. Nel suo “Nuove musiche e nuova maniera di scriverla” (1614) quest’arte è segnata in ogni dettaglio. Questo stile riguardava non solo l’elaborata ornamentazione ma anche l’uso estensivo dell’inflessione dinamica, della declamazione e del portamento. Elemento importante per il futuro della musica vocale, lo stile monodico pose grande attenzione alla libera declamazione ritmica del testo coniando il termine “quasi favellando in armonia”. Questo manierismo, primo gradino verso l’invenzione dello “stile recitativo” fu per due secoli al servizio di un’indispensabile parte del linguaggio musicale che si può trovare nella cantata, nell’oratorio, e nell’opera. Lo “stile recitativo” è il più fulgido esempio di prassi esecutiva nell’arte del canto che influisce sulla struttura della musica e sull’intero approccio alla composizione vocale.
Il periodo tra il 1575 e il 1625 testimonia due preponderanti sviluppi nella storia del canto: la nascita del castrato e l’invenzione dell’opera. La voce del castrato ha la sua prima significativa apparizione nei cori da chiesa. L’impiego della voce femminile del soprano nella musica profana creò una nuova ed entusiasmante sonorità che la Chiesa contro riformata non poteva più farne a meno. Con la proibizione della partecipazione femminile nella musica da chiesa, solo il castrato avrebbe potuto provvedere al suono richiesto e così gli scrupoli morali riguardo la castrazione furono messi da parte. La voce del castrato fu velocemente scoperta dai compositori dell’opera, tuttavia, chi fece il miglior uso di queste speciali qualità furono i compositori della musica sacra cattolica. I castrati sopravvissero in chiesa fino alla fine del XX secolo. Nel 1913 il castrato Alessandro Moreschi si ritirò dal ruolo di direttore della Cappella Sistina; di lui rimangono numerose registrazioni fatte all’inizio del secolo in quanto morì nel 1922.
(Ricerca effettuata con ausilio del New Grove Dictionary of Music)
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